Schermata 2025 01 08 Alle 23.28.08
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Introduzione – Se vi siete mai sentiti “bruciati” dal lavoro, non siete soli. Il burnout è ormai sulla bocca di tutti: giornali, uffici e social network parlano di questa forma di esaurimento legata al lavoro. Ma sappiamo davvero di cosa si tratta? Dietro l’uso diffuso del termine si nasconde un acceso dibattito scientifico. C’è chi considera il burnout un vero problema clinico individuale (quasi una malattia da curare) e chi invece lo vede come una questione organizzativa, sintomo di ambienti di lavoro tossici più che di persone “fragili”. In questa guida approfondiremo le origini di questo dibattito, cosa dice la scienza più recente (spoiler: gli esperti non sono tutti d’accordo), il rischio di medicalizzare ogni disagio, le strategie per affrontare il fenomeno e la necessità di un nuovo modello di salute integrato. Il tutto con rigore accademico ma con un leggero tocco di ironia – perché, ammettiamolo, a volte per sopravvivere allo stress serve anche un sorriso.

Origini del Dibattito

Il termine burnout (letteralmente “bruciato/fuso”) apparve negli anni ‘70 per descrivere uno stato di collasso psicofisico legato al lavoro. Oggi il burnout è ufficialmente riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come un fenomeno occupazionale, definito come una sindrome da stress lavorativo cronico non gestito con tre caratteristiche principali:

esaurimento (mancanza di energie), cinismo o distacco mentale dal lavoro, e ridotta efficacia personale​. Nonostante questa definizione “ufficiale”, sul burnout regna tutt’altro che armonia: dopo mezzo secolo di ricerche il concetto resta controverso​.

Gli esperti dibattono su diversi fronti: (a) se il burnout sia davvero causato principalmente dal lavoro o anche da fattori personali, (b) se ci troviamo di fronte a una sorta di “epidemia” moderna o se i numeri siano esagerati, (c) se il burnout sia una sindrome distinta dalla depressione (o in fondo un altro nome per una forma di depressione), (d) quanta parte del malessere sia legata allo stigma (il burnout sarebbe più “accettabile” dello stress o della depressione) e (e) quanto sia solida e chiara la definizione stessa di burnout​

Insomma, c’è chi sostiene che occorra rivedere in modo critico il costrutto di burnout.

Queste dispute teoriche avvengono sullo sfondo di una crescente preoccupazione pubblica. Molti lavoratori riferiscono di sperimentare segni di burnout e alcuni media parlano di generazioni bruciate dal lavoro. In effetti, studi recenti indicano che oltre la metà dei professionisti si colloca da qualche parte nel “continuum” del burnout (dai sintomi lievi ai casi più severi)​

L’impatto non è solo personale: si stima che il burnout costi alle organizzazioni tra 120 e 190 miliardi di dollari l’anno in termini di assenteismo, calo di produttività e turnover – cifre paragonabili ai costi annuali di malattie come il diabete o alcuni tipi di cancro.​

Numeri del genere spiegano perché molti parlino di emergenza burnout, anche se – come vedremo – alcuni studiosi mettono in dubbio proprio l’idea di un’“epidemia” dilagante di burnout. In sintesi, il contesto attuale vede il burnout al centro dell’attenzione pubblica e scientifica: da un lato il riconoscimento del problema e delle sue conseguenze, dall’altro accesi disaccordi su come inquadrarlo correttamente.

Cosa Dice la Scienza?

Cosa sostiene, dunque, la ricerca scientifica sul burnout? Vale la pena esaminare due posizioni contrapposte emerse di recente, rappresentative del dibattito: da un lato le argomentazioni critiche di Renzo Bianchi & Irvin Schonfeld (2024), dall’altro la risposta di Michael Leiter & Arla Day (2025) (insieme ad altri studiosi) a difesa del concetto tradizionale di burnout. Prepariamoci: volano stracci accademici (e qualche battuta al vetriolo) quasi quanto fogli Excel in una riunione di bilancio.

Bianchi & Schonfeld: “Siete sicuri che esista il burnout?” – Questi autori assumono una posizione scettica sul burnout come entità a sé stante. In un recente articolo hanno discusso tre “credenze” molto diffuse sul burnout, sostenendo che «si basano su prove insufficienti»: (1) che il burnout sia dovuto primariamente a fattori lavorativi, (2) che sia in atto un’epidemia di burnout, (3) che il burnout sia distinguibile dalla depressione​.

In altre parole, mettono in dubbio l’idea che lo stress lavorativo cronico sia la causa esclusiva del burnout, contestano l’allarmismo mediatico sui tassi di burnout e suggeriscono che ciò che chiamiamo burnout potrebbe non essere altro che depressione o distress generale in contesto lavorativo. Bianchi e colleghi citano diversi dati a sostegno della loro tesi. Ad esempio, in uno studio internazionale hanno rilevato che solo il 27% circa dei lavoratori con sintomi di burnout attribuisce effettivamente questi sintomi al lavoro​.

In un campione norvegese di oltre 800 impiegati, la percentuale di chi dava la colpa al lavoro per il proprio esaurimento (27,7%) non era diversa da quella di chi, in generale, si sentiva stressato o affaticato ma senza parlare esplicitamente di burnout​.

Risultati simili si osservano in campioni di altri Paesi (negli USA circa il 36% attribuisce i sintomi al lavoro)​.

Questo porta gli autori a mettere in guardia: dare per scontato che i sintomi manifestati sul lavoro siano necessariamente causati dal lavoro può essere fuorviante.​

Inoltre, Bianchi e coll. evidenziano come alcune meta-analisi longitudinali mostrino solo correlazioni modeste tra fattori di stress lavorativo e successivo burnout​.

In certi studi, anzi, il burnout precede e predice l’aumento di stress percepito sul lavoro, invece che esserne predetto – un risultato un po’ paradossale​.​

Tutto ciò viene interpretato come evidenza che il burnout non sia un fenomeno strettamente legato al lavoro in sé: forse le persone portano nel lavoro un malessere più generale, oppure la dinamica è bidirezionale e complessa. Infine, Bianchi & Schonfeld sottolineano l’enorme sovrapposizione tra burnout e depressione nelle ricerche esistenti, suggerendo che trattare il burnout come qualcosa di completamente diverso dalla depressione può essere un errore. In sintesi estrema, questa linea di pensiero vede il burnout più come un costrutto dubbio o ridondante – un’etichetta pop per un mix di sintomi già spiegabili da altre condizioni (depressione, ansia, stress cronico). Non tutti, però, sono d’accordo con questa “smontaggio” del burnout.

Leiter & Day: “Non buttiamo il bambino (e la vasca) con l’acqua sporca” – Dalla parte opposta, molti esperti di psicologia del lavoro (tra cui Michael Leiter, Christina Maslach, Wilmar Schaufeli, Arla Day e altri nomi storici nell’ambito) difendono la validità del burnout come specifico fenomeno legato al lavoro. In una risposta pungente alle critiche di Bianchi & Schonfeld, è stato osservato che questi ultimi rischiano di “buttare via il bambino con l’acqua sporca e persino la vasca da bagno” nel tentativo di eliminare il burnout dal lessico scientifico.​

Leiter e Day, in un articolo significativamente intitolato “Cherry picking and red herrings…” (ovvero “Selezione faziosa dei dati e false piste, creando molto rumore per nulla”), accusano i critici di fare cherry-picking – selezionare solo le evidenze che convengono – e di ignorare il quadro complessivo. Qual è, secondo loro, il quadro? Innanzitutto, distinguono tra semplici “segnali di burnout” (es. sentirsi stanchi, demotivati, cinici – malesseri che molti possono provare transitoriamente) e un vero e proprio “disturbo da burnout” clinico (una condizione grave e debilitante, che impedisce di lavorare e richiede magari assistenza professionale)​.

Questa distinzione è importante perché altrimenti si mescolano mele e arance: un conto è dire “tantissima gente è un po’ esaurita” (vero, i sintomi lievi sono diffusi), un altro è dire “c’è un’epidemia di casi clinici gravi di burnout”. I dati suggeriscono che i casi gravi (clinici) di burnout sono relativamente rari e stabili nel tempo, mentre sono aumentati leggermente i sintomi di burnout riferiti in generale.​

Dunque, secondo Leiter, Day e colleghi, parlare di pandemia di burnout è in parte esagerato – c’è sì un malessere diffuso, ma i “burnout devastanti” fortunatamente non dilagano fuori controllo. Ciò però non significa che il burnout non esista o che sia inutile: significa piuttosto che dobbiamo capire bene di cosa parliamo. In secondo luogo, essi sottolineano che le ricerche supportano comunque il legame tra il lavoro e il burnout. Pur ammettendo che anche fattori personali contano, una mole di studi evidenzia che fattori organizzativi (carichi di lavoro eccessivi, mancanza di supporto, poca autonomia, ecc.) aumentano il rischio di burnout

Meta-analisi autorevoli mostrano che domanda eccessiva e mancanza di risorse sul lavoro, seppur con effetti moderati, predispongono al burnout in modo consistente in varie occupazioni​.

​In altre parole, il burnout è davvero un fenomeno work-related (legato al lavoro): non è un caso che tipicamente si parli di burnout professionale e che certi contesti (es. sanità, istruzione) mostrino tassi più alti. Infine – punto cruciale – la fazione “pro-burnout” sostiene che il burnout si può distinguere dalla depressione. Come? Sia a livello concettuale (il burnout è circoscritto al contesto lavorativo e si manifesta soprattutto con esaurimento e cinismo verso il lavoro, mentre la depressione è pervasiva e comporta anedonia, bassa autostima globale, pensieri suicidari, ecc.) sia a livello empirico (alcuni studi clinici mostrano che pazienti con burnout severo senza depressione hanno un decorso diverso e rispondono a interventi focalizzati sul lavoro)​.

Insomma, per Leiter e altri, i critici fanno bene a chiedere rigorosità, ma sbagliano a dichiarare il burnout un mito inconsistente: servono sfumature, non negazioni assolute. Come concludono scherzosamente Schaufeli e colleghi, meglio un dibattito sfumato che un rifiuto semplicistico del burnout​.

A mo’ di metafora, Christina Maslach (pioniera degli studi sul burnout) ha suggerito un’immagine efficace per riassumere questo punto di vista: «Perché investigare la personalità dei cetrioli per scoprire perché sono diventati sottaceti, senza analizzare il barile di aceto in cui sono immersi?».​

Tradotto: se molti bravi lavoratori “si trasformano in sottaceti” (ovvero si inacidiscono e si spengono) forse il problema è nella salamoia – cioè nell’ambiente di lavoro – più che nel cetriolo in sé. In altre parole, non ha senso attribuire il burnout solo a debolezze individuali senza considerare le condizioni lavorative in cui le persone sono immerse. Questo ci porta dritti al prossimo tema: stiamo forse medicalizzando troppo il burnout (quindi concentrandoci sull’individuo “guasto”) a scapito del contesto?

Il Problema della Medicalizzazione

Viviamo in un’epoca in cui ogni malessere tende a ricevere un nome clinico: ansia, depressione, disturbi dell’adattamento… Era inevitabile che anche il burnout finisse sotto la lente della medicalizzazione, ovvero la tendenza a trasformare un problema umano o sociale in una condizione medica da diagnosticare e curare. Ma è sempre un bene? I critici avvertono di no. Se da un lato riconoscere il burnout può aiutare a non banalizzare la sofferenza dei lavoratori, dall’altro etichettarlo subito come “patologia” rischia di farci perdere di vista il contesto più ampio.

Pensiamoci: definire un dipendente esausto come “malato di burnout” sposta l’attenzione sul trattare l’individuo, magari con farmaci o terapie, anziché sul cambiare l’organizzazione che lo ha ridotto così. È più facile prescrivere pillole o corsi di mindfulness al singolo, che rivedere i turni massacranti o la cattiva gestione che lo hanno logorato. In questo senso, alcuni studiosi invitano a non cadere nella trappola di patologizzare ogni segnale di stanchezza lavorativa. Lo stesso OMS ha fatto attenzione a questo aspetto: infatti, pur includendo il burnout nell’ICD-11 (la classificazione internazionale delle malattie), lo ha inserito nella sezione dei “fenomeni associati al lavoro” e ha specificato che non è una condizione medica

In pratica l’OMS riconosce il burnout come un fattore che influenza la salute (un problema reale), ma non come una malattia in senso stretto o un disturbo clinico. Ciò riflette la volontà di non medicalizzare troppo il termine.

La storia della medicina insegna del resto prudenza: concetti come la neurastenia (il famoso “esaurimento nervoso” di fine ’800, caratterizzato da stanchezza cronica e nervosismo) furono onnipresenti per decenni, per poi essere abbandonati perché considerati troppo vaghi e privi di validità clinica​.

Alcuni intravedono un parallelo col burnout. Bianchi e altri propongono addirittura di eliminare la categoria burnout dall’ICD-11, sostenendo che i comuni disturbi già esistenti (es. depressione, disturbi d’ansia, adattamento) siano sufficienti a inquadrare il disagio da stress lavoro-correlato, magari aggiungendo una specificazione sull’ambito lavorativo.​

In effetti, fanno notare, nella maggior parte dei casi chi soffre gravemente per il lavoro soddisfa anche i criteri di diagnosi di depressione o ansia; perché dunque creare una “nuova malattia”? Altri esperti non sono così radicali, ma avvertono comunque di non esagerare nel vedere malattie ovunque: sentirsi esausti dopo mesi di super-lavoro può essere una risposta umana normale, prima ancora che una diagnosi. Medicalizzare tutto rischia di stigmatizzare i lavoratori (“sei malato di burnout”) o di sollevare le organizzazioni dalle proprie responsabilità (il problema diventa del singolo individuo e del suo medico, non dell’azienda). Inoltre, chiamare “sindrome” quello che per molti è un mix di stress e insoddisfazione potrebbe spingere a cercare soluzioni semplicistiche (pillole, certificati medici) invece di affrontare le cause sistemiche.

Questo non vuol dire negare l’importanza di riconoscere il burnout serio come un problema di salute – anzi, negli ultimi anni ad esempio alcuni Paesi (come i Paesi Bassi) hanno sviluppato linee guida per diagnosticare il cosiddetto “burnout clinico” o overspanning. Ma significa mantenere il giusto equilibrio: capire quando serve un intervento clinico (psicoterapia, riposo forzato, ecc.) e quando invece la strada maestra è cambiare le condizioni di lavoro. Come spesso accade, la virtù sta nel mezzo: riconoscere il burnout senza ridurlo a moda diagnostica o, peggio, alibi per non intervenire sulle cause organizzative. In fondo, se un’intera squadra di dipendenti “scoppia”, ha senso parlare di epidemia di malati o non è più logico pensare a un ambiente di lavoro tossico? Il nome che diamo al problema conta, ma ciò che conta di più è come agiamo di conseguenza.

Strategie per Affrontare il Burnout

Mentre gli accademici dibattono, chi lavora sul campo – manager, HR, psicologi del lavoro e lavoratori stessi – si chiede: come preveniamo e affrontiamo concretamente il burnout? La buona notizia è che esistono molte strategie, a diversi livelli. La meno buona è che non esistono soluzioni semplici e universali: non c’è una pillola magica né un corso motivazionale che garantiscano ambienti di lavoro felici e zero stress. Gli studi mostrano che gli interventi anti-burnout producono in genere miglioramenti modesti ma reali (riduzioni piccole nei livelli di esaurimento, ma comunque importanti)​.

Inoltre, appare chiaro che bisogna agire sia sul versante individuale che su quello organizzativo: gli approcci integrati e su più fronti sono i più efficaci nel lungo termine.​

Vediamo dunque alcune linee d’azione pratiche, distinguendo ciò che l’individuo può fare per proteggere se stesso e ciò che l’organizzazione (azienda, ente, team di gestione) dovrebbe fare per creare un contesto più sano.

A livello individuale: il lavoratore può adottare misure per gestire lo stress e mantenere l’equilibrio, ad esempio:

  • Riconoscere i segnali di allarme: imparare a notare i sintomi iniziali del burnout (stanchezza perenne, cinismo crescente, calo di efficacia) invece di ignorarli. Il burnout spesso non arriva all’improvviso ma striscia lentamente. Riconoscerlo precocemente è il primo passo per poter correggere rotta.
  • Stabilire confini tra lavoro e vita privata: in un’epoca di smartphone sempre connessi, disconnettersi è fondamentale. Ciò significa darsi orari oltre i quali non si lavora (ad esempio, evitare di leggere email di lavoro a tarda notte) e ritagliarsi tempo per sé stessi e la famiglia. Può sembrare banale, ma routine sane di work-life balance proteggono dall’esaurimento.
  • Gestire lo stress in modo sano: adottare tecniche di coping come la mindfulness, il rilassamento, l’attività fisica regolare, o anche hobby creativi, aiuta a smaltire la tensione accumulata. Numerosi studi hanno visto effetti positivi (seppur piccoli) di interventi come yoga, meditazione o training sulla resilienza nel ridurre i livelli di burnout​. Anche il semplice fare pause regolari durante la giornata lavorativa e usare pienamente ferie e giorni di riposo è cruciale per “ricaricare le batterie”.
  • Cercare supporto: non soffrire in silenzio! Parlare con colleghi di fiducia, amici o familiari del proprio stress può alleviare il senso di isolamento e vergogna. Sul lavoro, chiedere aiuto quando si è sovraccarichi (e magari delegare dove possibile) è segno di intelligenza, non di debolezza. Se il malessere diventa importante, rivolgersi a un professionista (psicologo, counselor) o ai programmi di assistenza dipendenti, dove disponibili, può fare la differenza. Condividere il peso spesso lo rende più leggero.
  • Coltivare interessi ed equilibri esterni: più la nostra identità è esclusivamente legata al lavoro, più il burnout può farci male. Avere altre fonti di realizzazione (famiglia, amici, passioni, sport, volontariato) crea una resilienza naturale: se va male al lavoro, il nostro mondo non crolla interamente. Inoltre attività extra-lavorative arricchiscono le energie mentali invece di svuotarle.

Certo, queste strategie individuali hanno i loro limiti. Possono aiutare a tenere a bada lo stress e aumentare la resilienza personale, ma non risolvono da sole un ambiente di lavoro tossico. Come ha osservato provocatoriamente un articolo, “non ci si può aspettare di uscire dal burnout solo con yoga e meditazione, se l’acidità del contesto resta la stessa”.​

In altre parole, possiamo fare tutto lo yoga del mondo, ma se l’azienda continua a chiederci turni impossibili, prima o poi crolliamo di nuovo. Dunque, l’onere non può essere scaricato interamente sui singoli: anche le organizzazioni devono fare la loro parte.

A livello organizzativo: creare una cultura e delle condizioni di lavoro sane è il modo più efficace di prevenire il burnout sul largo periodo. La ricerca ha individuato sei aree chiave dell’ambiente di lavoro che influenzano il rischio di burnout: carico di lavoro, controllo (autonomia decisionale), ricompense (sia economiche che di riconoscimento), comunità (rapporto con colleghi e superiori), equità e valori (senso di significato e allineamento etico).​

Quando c’è un forte mismatch (disallineamento) tra la persona e il lavoro in uno o più di questi ambiti, la probabilità di burnout aumenta​.

Al contrario, organizzazioni che curano questi aspetti tendono ad avere personale più motivato e resistente allo stress. Ecco alcune azioni concrete che datori di lavoro e manager possono intraprendere:

  • Bilanciare i carichi di lavoro: assicurarsi che le richieste fatte ai dipendenti siano sostenibili. Turni e straordinari dovrebbero essere l’eccezione, non la regola. Progetti e scadenze vanno pianificati tenendo conto delle risorse disponibili. In pratica, evitare che una persona faccia il lavoro di tre. Work smarter, not just harder: migliorare i processi per evitare sprechi di tempo e lavoro riduce il sovraccarico senza perdere produttività.
  • Aumentare l’autonomia e il controllo: concedere ai lavoratori un ragionevole margine di decisione su come svolgere il proprio lavoro. Micro-gestione e controllo asfissiante tolgono motivazione e aumentano lo stress. Al contrario, dare fiducia e libertà (p.es. orari flessibili, possibilità di organizzare le proprie attività, smart working dove possibile) accresce il senso di padronanza e riduce il burnout. Un dipendente che sente di avere voce in capitolo sarà anche più proattivo nel risolvere i problemi.
  • Riconoscere e ricompensare il lavoro: pochi fattori sono deleteri come l’assenza di riconoscimento. Impegnarsi a fondo e sentirsi invisibili o dati per scontati alimenta cinismo e distacco. Le organizzazioni dovrebbero coltivare una cultura del feedback positivo: celebrare i successi, ringraziare per gli sforzi, offrire opportunità di crescita e, ovviamente, compensi equi. Una paga adeguata e bonus per il buon lavoro non risolvono tutto, ma l’iniquità o l’assenza totale di premi certamente demotivano. Sentirsi valorizzati per ciò che si fa è un potente antidoto al logorìo.
  • Promuovere il supporto sociale: il posto di lavoro non è fatto solo di compiti, ma di persone. Un clima di squadra, dove colleghi e superiori si sostengono a vicenda, può tamponare gli effetti dello stress. Le aziende dovrebbero incoraggiare la collaborazione anziché la competizione sfrenata, formare i manager all’empatia e all’ascolto, creare spazi di confronto. Anche piccoli gesti (riunioni di team per condividere difficoltà, programmi di mentoring, attività di team building) rafforzano il senso di comunità. Quando ci si sente parte di un gruppo unito, è più facile affrontare periodi intensi senza bruciarsi.
  • Garantire equità e trasparenza: percepire ingiustizie sul lavoro (trattamenti preferenziali, mancanza di trasparenza nelle decisioni, valutazioni arbitrarie) è uno dei fattori che più alimentano il risentimento e il distacco emotivo. Al contrario, organizzazioni giuste – dove le regole valgono per tutti, la comunicazione è chiara e i conflitti di interessi evitati – generano fiducia. Stabilire procedure eque (per promozioni, carichi di lavoro, distribuzione dei turni) e comunicarle apertamente riduce il “veleno” che può corrodere l’engagement dei dipendenti.
  • Allineare il lavoro con significati e valori: lavorare solo per un salario, in un’attività percepita come priva di senso o peggio moralmente discutibile, porta più facilmente al cinismo e all’esaurimento emotivo. È importante aiutare i lavoratori a vedere il valore di ciò che fanno, collegare i compiti quotidiani a uno scopo più ampio. Ciò può avvenire discutendo la mission aziendale in termini concreti, coinvolgendo i dipendenti nei processi decisionali (così che sentano l’azienda come loro) e favorendo un equilibrio tra valori personali e cultura organizzativa. Quando le persone credono in quello che fanno, è meno probabile che brucino nel farlo.

Naturalmente, nessuna di queste misure organizzative è facile da implementare da un giorno all’altro. Richiedono spesso cambi di mentalità a livello di leadership e talvolta investimenti (per assumere più personale, per formare i manager, ecc.). Tuttavia, i benefici sono significativi: non solo si riducono i casi di burnout, ma aumentano anche le prestazioni, la soddisfazione lavorativa e la fidelizzazione dei dipendenti. Studi meta-analitici suggeriscono che gli interventi sul luogo di lavoro – specie quelli partecipativi, dove si coinvolgono attivamente i lavoratori nel progettare soluzioni – portano a riduzioni (piccole ma misurabili) del livello di esaurimento medio nei team​.

E quando si combinano interventi organizzativi insieme a supporti individuali (ad esempio formazione allo stress e riorganizzazione dei carichi), l’effetto tende ad essere più forte.​

In sintesi, la strategia vincente contro il burnout è attaccare il problema su più fronti: aiutare le persone a gestire meglio lo stress e creare ambienti di lavoro in cui meno stress nocivo viene generato. Del resto, prevenire il burnout conviene a tutti: lavoratori più sani e motivati, aziende più produttive (e con minori costi nascosti). Non è solo questione di benessere, ma anche di efficacia economica a lungo termine.

Verso un Nuovo Modello di Salute

L’affiorare del tema burnout ha un merito: ci costringe a ripensare i nostri modelli di salute e benessere. È sempre più evidente che per affrontare fenomeni complessi come lo stress lavorativo non basta una sola prospettiva – serve un approccio integrato e multidisciplinare. In futuro, probabilmente parleremo di salute organizzativa o benessere occupazionale come di un intreccio di fattori psicologici, biologici, sociali ed economici.

Immaginiamo un nuovo modello di salute in cui psicologi del lavoro, neuroscienziati, sociologi ed economisti collaborano fianco a fianco. Potremmo chiamarlo modello “bio-psico-sociale-economico”. Cosa significa in pratica? Significa riconoscere, ad esempio, che il cervello e il corpo dei lavoratori sono influenzati dallo stress cronico: oggi le neuroscienze ci mostrano che il burnout prolungato si associa a cambiamenti neurofisiologici misurabili – come un assottigliamento della corteccia prefrontale, un’iperattivazione dell’amigdala, alterazioni cognitive (memoria, attenzione) e persino marcatori di invecchiamento biologico (riduzione della variabilità cardiaca, telomeri più corti)​.

Inoltre, il burnout grave è stato collegato a un maggiore rischio di disturbi cardiovascolari e metabolici​.

Questo ci ricorda che mente e corpo sono inseparabili: lo stress lavoro-correlato non è solo “nella testa”, ma ha effetti concreti sulla salute fisica. Ecco perché nel modello integrato entrano in gioco le neuroscienze e la medicina: per monitorare questi effetti, comprenderne i meccanismi (ad esempio quali circuiti cerebrali sono coinvolti nell’esaurimento) e magari sviluppare interventi migliori (come tecniche di recupero neurofisiologico, programmi di sonno, ecc.).

Allo stesso tempo, la psicologia e le scienze sociali rimangono fondamentali: ci aiutano a capire come i fattori organizzativi (carichi di lavoro, stile di leadership, cultura aziendale) e quelli personali (tratti di personalità, capacità di coping) interagiscono nel determinare il benessere o il malessere. Un approccio integrato incoraggia le aziende ad applicare principi di prevenzione primaria (ridurre i fattori di rischio nello scenario lavorativo), promozione del positivo (costruire ambienti che favoriscano engagement, crescita e supporto reciproco) e intervento sui problemi (offrire aiuto a chi mostra segnali di difficoltà) – tutte azioni da portare avanti contemporaneamente in un’ottica di sistema​.​

In pratica, si tratta di creare luoghi di lavoro sani dove le persone possano prosperare, intervenendo sia sull’ambiente sia sull’individuo. Questo tipo di approccio “olistico” alla salute occupazionale è sostenuto da varie ricerche che mostrano come gli interventi multi-livello siano più efficaci nel ridurre lo stress e migliorare gli outcome rispetto a quelli focalizzati su un solo aspetto​.

Certo, non esiste una ricetta unica valida per tutte le organizzazioni – ogni azienda dovrà adattare questi principi alla propria realtà – ma l’idea guida è affrontare il benessere lavorativo a 360 gradi.

Infine, nel nuovo modello entra in scena anche l’economia e la politica: la lotta al burnout non è solo un tema di salute individuale, ma di sostenibilità dei sistemi produttivi. Un numero crescente di studi economici evidenzia i costi enormi dello stress e del burnout per la società (perdite di produttività, costi sanitari, turnover di personale qualificato)​.

Questo sta portando concetti come il “benessere organizzativo” e la “economia del benessere” nell’agenda di governi e imprese. Investire in prevenzione del burnout e in qualità della vita lavorativa non è più visto come un lusso “buonista”, ma come una scelta intelligente anche dal punto di vista finanziario. Alcune aziende pioniere parlano di “profitto sostenibile”, implicando che non si possono spremere all’infinito le risorse umane senza pagarne il prezzo. Si inizia a discutere di normative sul diritto alla disconnessione, di modelli di orario flessibile, di valutare i manager non solo sui risultati ma anche sul benessere dei loro team. Sono segnali di un cambio di paradigma: la salute occupazionale diventa un obiettivo condiviso, una responsabilità sociale oltre che individuale.

In conclusione, combattere il burnout richiede di superare vecchie dicotomie. Non è una questione di psicologia o organizzazione, di individuo o ambiente, ma di entrambe le cose insieme. Come recita un detto, “ci vuole un villaggio” – in questo caso un villaggio fatto di psicologi, medici del lavoro, neuroscienziati, esperti di organizzazione aziendale ed economisti – per far fiorire il benessere e la produttività in modo equilibrato. Verso un nuovo modello di salute, integrato e interdisciplinare, il burnout può essere non solo arginato ma trasformato in una opportunità di crescita: ci insegna dove le nostre società e organizzazioni devono migliorare. Prendersi cura delle persone prima che “brucino” non è solo umanamente giusto, ma conviene a tutti. In un mondo ideale, magari un giorno non parleremo quasi più di burnout – non perché l’avremo ignorato o medicalizzato, ma perché avremo creato condizioni di lavoro capaci di prevenire quel collasso. Utopia? Forse. Ma certamente una direzione verso cui vale la pena muoversi, con buona pace sia dei cetrioli che dell’aceto!

Bibliografia:

Burnout – Half a century of controversy​

Bianchi & Schonfeld (2025), Beliefs about burnout;​​

De Witte & Schaufeli (2025), Throwing the baby out…;​

Leiter & Day (2025), Cherry picking and red herrings…; WHO – ICD-11 Q&A​;

Sowden et al. (2024), Five decades of debate on burnout;​​

Bianchi et al. (2024), Most people do not attribute their burnout to work;​​

Maslach & Leiter – Six areas of worklife​;

Kiratipaisarl et al. (2024), meta-analysis on burnout interventions​;

Integrative approach to workplace mental health​;

SSIR – Burnout from an organizational perspective.​​

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