Schermata 2025 01 08 Alle 23.28.08
pensa forse sei
hikikomori
Disturbi ansia- genitori

Quando il mondo esterno diventa insopportabile

Immaginate una stanza, forse di tre metri per due, illuminata solo dalla luce bluastra di un monitor. All’interno, un giovane trascorre mesi, talvolta anni, senza quasi mai varcare la soglia. I pasti vengono lasciati fuori dalla porta; l’interazione umana diretta è ridotta al minimo indispensabile. Il mondo esterno è percepito come una minaccia, un luogo di giudizio e dolore da cui è preferibile ritirarsi completamente.

Benvenuti nel fenomeno dell’hikikomori (引きこもり), termine giapponese che letteralmente significa “stare in disparte, isolarsi”. Questo termine descrive un fenomeno di ritiro sociale acuto che, sebbene identificato inizialmente in Giappone negli anni ’90, è ormai riconosciuto come una realtà globale che attraversa confini culturali e geografici, manifestandosi con particolare intensità nelle società post-industriali altamente tecnologiche.

Come studiosi che osservano questo fenomeno, possiamo constatare come l’hikikomori rappresenti non semplicemente un disturbo individuale, ma piuttosto un barometro sociale – una risposta estrema alle pressioni e contraddizioni delle società contemporanee, amplificata dalla digitalizzazione della vita quotidiana.

Definizione e criteri diagnostici: La geografia dell’isolamento

L’hikikomori è stato definito formalmente dal Ministero della Salute giapponese come “un individuo che rimane isolato a casa propria per un periodo superiore a sei mesi, durante il quale restringe significativamente le proprie relazioni sociali” (Ministry of Health, Labour and Welfare of Japan, 2010). Tuttavia, questa definizione ufficiale rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso che sfida le categorie diagnostiche tradizionali.

Il professor Tamaki Saitō, psichiatra giapponese che per primo ha sistematizzato lo studio dell’hikikomori nel suo libro seminale “Shakaiteki Hikikomori” del 1998, ha identificato questi criteri diagnostici:

  1. Reclusione fisica principalmente all’interno della propria abitazione
  2. Marcata evitazione di situazioni sociali e relazioni interpersonali
  3. Durata del ritiro superiore a sei mesi
  4. Significativa compromissione funzionale o disagio soggettivo
  5. Esclusione di altre condizioni psichiatriche primarie che potrebbero meglio spiegare il ritiro (sebbene possano coesistere comorbilità)

Questa condizione si manifesta tipicamente come un graduale scivolamento verso l’isolamento: il giovane inizialmente si assenta dalla scuola o dal lavoro, poi limita le uscite a momenti di scarsa presenza sociale (come la notte), per infine ritirarsi completamente all’interno delle mura domestiche, spesso confinandosi nella propria stanza.

È fondamentale distinguere l’hikikomori da altre condizioni psichiatriche, sebbene possa presentarsi in comorbilità con disturbi come depressione, ansia sociale, disturbi dello spettro autistico o dipendenza da internet. La distinzione chiave risiede nella centralità del ritiro sociale come elemento definitorio piuttosto che come sintomo secondario.

Epidemiologia: La dimensione di un fenomeno invisibile

Quantificare con precisione la prevalenza dell’hikikomori rappresenta una sfida metodologica significativa, proprio per la natura del fenomeno che porta i soggetti a evitare qualsiasi contatto, inclusa la partecipazione a indagini epidemiologiche.

In Giappone, dove il fenomeno è stato studiato più approfonditamente, le stime del governo indicano che circa 1,2 milioni di individui (circa l’1% della popolazione) soddisfano i criteri per hikikomori (Cabinet Office, Government of Japan, 2019). Di questi, circa 613.000 sono nella fascia d’età 40-64 anni, sfatando il mito che si tratti esclusivamente di un fenomeno adolescenziale o giovanile.

Tuttavia, studi basati su metodologie più aggressive di campionamento suggeriscono che la prevalenza reale potrebbe essere significativamente più elevata, con alcune stime che arrivano fino al 2,3% della popolazione adulta giapponese (Koyama et al., 2010).

Il fenomeno è stato documentato, con prevalenze variabili, in numerosi paesi:

  • In Corea del Sud, uno studio ha identificato il fenomeno nella popolazione generale (Lee et al., 2013)
  • A Hong Kong, è stata documentata la presenza del fenomeno tra i giovani adulti (Wong et al., 2015)
  • In Italia, l’Associazione Hikikomori Italia ha stimato alcune decine di migliaia di casi
  • In Spagna, sono stati documentati numerosi casi (Malagón-Amor et al., 2020)
  • Negli Stati Uniti, sebbene manchino studi epidemiologici sistematici, case report e ricerche preliminari suggeriscono una presenza crescente del fenomeno (Teo et al., 2015)

Curiosamente, anche in contesti culturali apparentemente distanti come i paesi nordici, il fenomeno è stato documentato con nomi locali come “neet withdrawal” in Finlandia (Husu & Välimäki, 2017).

Il profilo demografico evidenzia una predominanza maschile nelle diagnosi, sebbene alcuni ricercatori ipotizzino che le manifestazioni femminili possano essere sottodiagnosticate a causa di differenze nei costrutti culturali relativi all’isolamento.

Particolarmente allarmante è il trend temporale: gli studi longitudinali concordano nell’indicare un incremento significativo del fenomeno negli ultimi 20 anni, con un’accelerazione ulteriore osservata dopo la pandemia COVID-19, che ha contribuito a normalizzare l’isolamento sociale e potenziato infrastrutture di supporto alla vita reclusa (consegne a domicilio, intrattenimento digitale, lavoro e studio da remoto).

Eziologia multifattoriale

L’hikikomori emerge dall’intersezione di vulnerabilità individuali e fattori socioculturali, in un classico modello diatesi-stress che è stato ampiamente documentato. Proponiamo di esaminare l’eziologia attraverso tre livelli interconnessi:

1. Fattori individuali

A livello individuale, specifici tratti di personalità e vulnerabilità predispongono certe persone al ritiro sociale estremo:

  • Temperamento: tendenza all’introversione e ipersensibilità. Studi condotti dal gruppo di ricerca di Takahiro Kato presso l’Università di Kyushu hanno rilevato che molti individui hikikomori presentano tratti di personalità caratterizzati da elevata sensibilità al rifiuto sociale, evitamento del danno e bassa ricerca di novità (Kato et al., 2017). Questi individui sembrano possedere una sorta di “radar sociale ipersensibile” che amplifica esperienze di critica o esclusione.
  • Difficoltà nelle competenze sociali e nell’elaborazione delle emozioni. Ricerche condotte attraverso task di riconoscimento delle emozioni facciali hanno evidenziato difficoltà specifiche nell’interpretazione di espressioni emotive ambigue negli individui hikikomori, con una tendenza a interpretare negativamente stimoli sociali neutri (Tateno et al., 2012). È come se questi individui leggessero costantemente “pericolo” o “rifiuto” in segnali sociali ordinari.
  • Comorbilità psichiatriche. Mentre l’hikikomori viene concettualizzato come sindrome a sé stante, frequentemente coesiste con altre condizioni. Il gruppo di Koyama ha rilevato che una percentuale significativa dei soggetti hikikomori soddisfaceva i criteri per almeno un altro disturbo psichiatrico, con prevalenza di disturbo depressivo, disturbo d’ansia sociale, e disturbi dello spettro autistico (Koyama et al., 2010). Queste comorbilità possono fungere sia da cause che da conseguenze del ritiro.

2. Fattori familiari e relazionali

Il microsistema familiare gioca un ruolo cruciale sia nell’eziologia che nel mantenimento dell’hikikomori:

  • Dinamiche familiari disfunzionali. Studi condotti da Kato e collaboratori hanno identificato pattern ricorrenti nelle famiglie di individui hikikomori: è frequente osservare una combinazione di overprotection materna e figura paterna emotivamente distante o assente (Kato et al., 2012). Questa dinamica crea quello che potremmo definire “paradosso del nido”: un ambiente familiare simultaneamente soffocante e disattento.
  • Comunicazione familiare problematica. L’analisi delle interazioni familiari rivela spesso pattern di comunicazione caratterizzati da scarsa espressione emotiva diretta (alexitimia familiare) e conflitti irrisolti. Uno studio osservazionale di Umeda ha documentato che in molte famiglie con un membro hikikomori erano presenti modalità comunicative caratterizzate da “evitamento del confronto diretto” e “mantenimento di una facciata di armonia” (概念 “tatemae”) (Umeda & Kawakami, 2012). Queste famiglie sviluppano un equilibrio patologico attorno al ritiro, involontariamente sostenendolo.
  • Ambivalenza nell’autonomia. Un elemento critico è l’ambivalenza verso l’autonomia del giovane adulto. Molte famiglie oscillano tra spinte contraddittorie: da un lato lamentano il ritiro, dall’altro mantengono modelli relazionali che implicitamente lo sostengono, come attraverso l’accudimento totale senza richieste di responsabilità. Questo fenomeno, che potremmo denominare “trappola dell’accudimento”, costituisce uno dei maggiori ostacoli terapeutici.

3. Fattori socioculturali

Il livello macrosistemico offre indizi cruciali per comprendere perché l’hikikomori sia emerso con particolare intensità in determinate società:

  • Pressione al conformismo e timore del fallimento. Società con elevate aspettative di successo e bassa tolleranza per percorsi non convenzionali creano un terreno fertile per il ritiro sociale. Non è un caso che il fenomeno sia stato inizialmente identificato in Giappone, una società con aspettative estremamente codificate di successo accademico e professionale. Teo e Gaw hanno documentato come molti individui hikikomori riferiscano “paura dell’inadeguatezza sociale” come fattore scatenante (Teo & Gaw, 2010).
  • Trasformazioni economiche e precarietà. La destrutturazione del mercato del lavoro, con la perdita delle tradizionali garanzie occupazionali, ha creato una generazione che affronta prospettive economiche significativamente più incerte rispetto alle generazioni precedenti. Dati dall’International Labor Organization suggeriscono una correlazione tra l’aumento della disoccupazione giovanile e l’incremento di casi di hikikomori (International Labour Organization, 2019).
  • Digitalizzazione della socialità. L’avvento di internet e dei social media ha creato un’alternativa alla socializzazione diretta, consentendo forme di connessione che non richiedono l’esposizione fisica. Paradossalmente, la tecnologia che potrebbe mantenere i collegamenti sociali diventa spesso un sostituto che facilita il ritiro. Uno studio longitudinale condotto da Kato ha documentato come molti individui hikikomori mantengano qualche forma di connessione sociale online, suggerendo che il ritiro non è tanto dal contatto sociale quanto dall’esposizione fisica e dall’incontro diretto (Kato et al., 2019).
  • Frammentazione comunitaria. L’erosione delle strutture comunitarie tradizionali ha ridotto i meccanismi naturali di inclusione e supporto. Come ha eloquentemente osservato il sociologo Robert Putnam, stiamo “bowlando da soli” (Putnam, 2000) in società sempre più individualizzate dove l’isolamento diventa simultaneamente più facile da implementare e più difficile da riconoscere come problematico.

Il contesto italiano: peculiarità culturali e risposta al fenomeno

L’Italia rappresenta un caso di studio interessante nel panorama dell’hikikomori, con caratteristiche che riflettono le peculiarità del contesto socio-culturale mediterraneo. Secondo i dati dell’Associazione Hikikomori Italia, si stimano diverse decine di migliaia di casi nel paese, anche se manca ancora una rilevazione epidemiologica sistematica a livello nazionale.

Specificità del modello italiano

Il modello familiare italiano, tradizionalmente caratterizzato da legami intergenerazionali forti e prolungata permanenza dei giovani adulti nella casa di origine, crea una configurazione particolare del fenomeno:

  • Ritiro visibile e invisibile. A differenza del contesto giapponese, dove l’hikikomori tende a manifestarsi come completa reclusione nella propria stanza, il caso italiano mostra spesso un “ritiro a geometria variabile”. Come documenta Lancini (2019), molti giovani italiani in condizione di ritiro mantengono alcune interazioni familiari selettive mentre evitano completamente altri contesti sociali. Questo fenomeno è stato definito “ritiro sociale parziale” ed è particolarmente frequente nel contesto mediterraneo.
  • Ruolo materno. La figura materna gioca un ruolo particolarmente significativo nella dinamica del ritiro in Italia in quanto tenderebbe ad assumere un ruolo di “mediazione protettiva” che, pur sostenendo materialmente ed emotivamente il figlio ritirato, può involontariamente contribuire al mantenimento della condizione.
  • Stigma e vergogna familiare. Nel contesto culturale italiano, dove l’immagine sociale della famiglia mantiene una rilevanza significativa, la presenza di un membro hikikomori viene spesso vissuta come un “fallimento familiare” da nascondere. Lo studio qualitativo di Crepaldi (2019) ha evidenziato come nelle famiglie italiane con un membro in ritiro sociale, la preoccupazione per lo stigma e il giudizio esterno costituisca una barriera significativa alla ricerca di aiuto, con conseguente ritardo nell’intervento.

Risposta istituzionale e interventi

L’Italia ha sviluppato negli ultimi anni alcune risposte al fenomeno, sebbene ancora frammentarie e non sistematiche:

  • Linee guida nazionali. Nel 2021, il Ministero della Salute ha incluso per la prima volta il ritiro sociale giovanile tra le problematiche affrontate nel documento “Linee di indirizzo sui disturbi neuropsichiatrici e neuropsichici dell’infanzia e della adolescenza” (Ministero della Salute, 2021), riconoscendo ufficialmente la rilevanza del fenomeno.
  • Educativa territoriale. Un approccio che ha mostrato risultati promettenti nel contesto italiano è quello dell’educativa territoriale personalizzata, come documentato dall’esperienza del Minotauro di Milano (Lancini, 2019). Questo modello prevede interventi domiciliari da parte di educatori specificatamente formati che lavorano sulla graduale riattivazione sociale, rispettando i tempi e le modalità del giovane ritirato.
  • Interventi web-mediati. Riconoscendo il paradosso di giovani “ritirati ma connessi”, alcuni centri italiani hanno sviluppato protocolli di primo contatto attraverso piattaforme digitali. Questa modalità utilizza strumenti digitali già familiari ai giovani ritirati come punto di ingresso per interventi successivi.

Specificità culturali nell’espressione del fenomeno

Un elemento distintivo del fenomeno hikikomori in Italia emerso dalle ricerche qualitative (Spiniello et al., 2020) è la frequente presenza di aspetti “compensatori” durante il ritiro. A differenza del prototipo giapponese caratterizzato spesso da inattività, molti giovani italiani in ritiro sviluppano intense attività sostitutive – artistiche, intellettuali o digitali – che, pur avvenendo in isolamento, mantengono attiva una dimensione di produttività e autoefficacia. Questo elemento potrebbe rappresentare sia una risorsa per il recupero che un fattore di mantenimento del ritiro, poiché riduce la percezione soggettiva di disfunzionalità.

L’esperienza del modello “Onesan” in Giappone: possibilità di adattamento

Il modello “Onesan” (お姉さん, letteralmente “sorella maggiore”) rappresenta una delle strategie più innovative sviluppate in Giappone per affrontare il fenomeno hikikomori. Sebbene l’adattamento sistematico di questo approccio al contesto italiano sia ancora in fase preliminare, vale la pena esaminare l’esperienza giapponese originale per le sue potenziali applicazioni.

Come documentato dallo studio di Kato e collaboratori (2019), il programma Onesan implementato in diverse prefetture giapponesi si basa su un principio fondamentale: offrire una figura di supporto che operi in uno spazio intermedio tra il ruolo professionale e quello familiare. Le “sorelle maggiori” – tipicamente giovani donne con formazione in scienze umane ma non necessariamente clinica – stabiliscono un contatto graduale con il giovane ritirato, prima attraverso comunicazione indiretta e successivamente attraverso interazioni dirette.

Secondo l’analisi di Kato, Kanba e Teo (2020), l’efficacia di questo approccio sembra risiedere in alcuni elementi chiave:

  1. Ridotta percezione di minaccia. Le figure “onesan” sono percepite come meno minacciose rispetto ai professionisti della salute mentale, generando minore resistenza iniziale.
  2. Asimmetria attenuata. La relazione mantiene un’asimmetria naturale (simile a quella tra fratelli) ma non la marcata differenza di ruolo e potere tipica delle relazioni terapeutiche tradizionali.
  3. Orientamento al presente. L’interazione è focalizzata sulla condivisione di esperienze nel qui-e-ora, senza un’agenda esplicita di “guarigione” o cambiamento.

Per quanto riguarda possibili adattamenti al contesto occidentale, lo studio comparativo di Teo (2020) evidenzia la necessità di considerare attentamente le differenze culturali nella concettualizzazione dei ruoli familiari e nelle aspettative relazionali. Ad esempio, il ruolo di “sorella maggiore” ha connotazioni culturali specifiche nella società giapponese che potrebbero richiedere reinterpretazioni significative in altri contesti.

L’esperienza vissuta: Fenomenologia dell’isolamento

Per comprendere veramente l’hikikomori, dobbiamo andare oltre statistiche e modelli eziologici, immergendoci nell’esperienza soggettiva di chi vive questa condizione. Attraverso interviste approfondite con individui in percorso di recupero da hikikomori, i ricercatori hanno identificato temi fenomenologici ricorrenti che illuminano l’esperienza vissuta del ritiro sociale estremo:

1. Il tempo sospeso

Gli individui hikikomori descrivono frequentemente un’alterazione della percezione temporale. I giorni perdono la loro struttura convenzionale, fondendosi in un continuum indifferenziato dove il tempo soggettivo sembra simultaneamente accelerare (i mesi passano senza essere percepiti) e rallentare (le ore di veglia notturna sembrano interminabili).

Un caso documentato è quello di un giovane di 26 anni, con due anni di ritiro completo, che ha descritto così la sua esperienza: “Il tempo nella mia stanza è come acqua stagnante. Non scorre veramente. Mi sveglio, accendo il computer, poi all’improvviso è notte, poi di nuovo giorno… dopo un po’ smetti di tenere il conto. Ti rendi conto che sono passati mesi solo quando vedi cambiare le stagioni dalla finestra.”

2. L’ambivalenza dello spazio sicuro

La propria stanza diventa un luogo paradossale: simultaneamente rifugio e prigione. Le persone intervistate descrivono un attaccamento quasi simbiotico al proprio spazio fisico limitato, che viene organizzato meticolosamente per massimizzare comfort e autonomia.

Una giovane di 22 anni ha descritto questa esperienza: “La mia stanza è l’unico posto dove posso respirare. Fuori mi sento come se l’aria fosse troppo pesante, come se tutti potessero vedere attraverso di me. Qui sono al sicuro. Ma a volte mi sveglio nel cuore della notte e le pareti sembrano stringersi… so che dovrei uscire, ma non ricordo più come si fa.”

3. Il corpo dimenticato

Un elemento sorprendente è la frequente descrizione di una relazione alterata con il proprio corpo fisico. Molti riportano una diminuzione della consapevolezza corporea, come se la mente si separasse progressivamente dall’esperienza incarnata.

Un caso emblematico è quello di un uomo di 31 anni, intervistato dopo 4 anni di ritiro: “A un certo punto ho smesso di guardarmi allo specchio. Mangiavo solo quando avevo fame estrema, dormivo quando crollavo. Il mio corpo era diventato una specie di appendice scomoda, qualcosa da mantenere funzionante al minimo indispensabile mentre la mia vera vita si svolgeva online.”

4. La digitalizzazione dell’identità

Contrariamente allo stereotipo dell’isolamento totale, molti hikikomori mantengono intense attività sociali online, dove spesso costruiscono identità alternative che permettono forme di connessione impossibili nella vita reale. Questa scissione tra sé digitale e sé fisico rappresenta sia una strategia di coping che un ostacolo al recupero.

Una giovane donna di 24 anni ha condiviso la sua esperienza: “Online sono una persona completamente diversa: sicura, divertente, ho amici in tutto il mondo. Poi spengo il computer e torno ad essere invisibile. A volte non so più quale sia la vera me.”

5. L’ambivalenza del ritorno

Particolarmente illuminante è l’ambivalenza verso il “ritorno” nel mondo. Anche quando riconoscono la sofferenza dell’isolamento, molti hikikomori descrivono un terrore paralizzante all’idea di reintegrarsi. Il mondo esterno viene percepito come irrimediabilmente cambiato, o come un luogo dove non c’è più posto per loro.

Un giovane di 27 anni, intervistato dopo 3 anni di ritiro, ha espresso questo timore: “Quando penso di uscire, sento un panico fisico. Non è solo ansia, è come se non sapessi più come muovermi in spazi aperti, come parlare con le persone. E poi, cosa direi quando mi chiedessero cosa ho fatto negli ultimi anni? Come spieghi un buco di tre anni senza sembrare un alieno?”

Questa fenomenologia complessa evidenzia come l’hikikomori non sia semplicemente un ritiro dal mondo, ma la creazione di un mondo alternativo con regole, ritmi e significati propri. Qualsiasi intervento efficace deve riconoscere la funzione adattiva di questo mondo alternativo, pur lavorando gradualmente per ristabilire ponti con la realtà condivisa.

Interventi: Aprire porte senza invadere spazi

L’approccio terapeutico all’hikikomori richiede una delicatezza particolare, bilanciando il rispetto dell’autonomia del soggetto con la necessità di interrompere pattern disfunzionali. Basandoci sulla letteratura internazionale, proponiamo un modello di intervento multi-fase che integra approcci tradizionali con metodologie innovative.

1. La fase di aggancio: costruire ponti verso l’invisibile

Il primo, cruciale passaggio è stabilire un contatto con persone che, per definizione, evitano i contatti. Questa fase può richiedere mesi di paziente costruzione di fiducia:

  • Approccio step-down. Sviluppato dal gruppo giapponese di Saitō, prevede una graduale progressione: comunicazione scritta (lettere, email) → comunicazione verbale mediata (telefono, messaggi) → incontri in luoghi “sicuri” (abitazione) → graduale esposizione a contesti esterni (Saito, 2013). L’efficacia di questo approccio nella fase iniziale è stata documentata in diversi studi (Kato et al., 2018).
  • Home-visiting adattato. La pratica tradizionale giapponese dello “yotaku” (訪問支援), adattata al contesto occidentale, prevede visite domiciliari non intrusive che rispettano i confini del soggetto. Inizialmente, il terapeuta può semplicemente sedersi fuori dalla porta della stanza, parlando senza aspettarsi risposta immediata, costruendo gradualmente familiarità e sicurezza. Questo protocollo introduce gradualmente oggetti di interesse nella conversazione unidirezionale (libri, giochi, riferimenti a interessi noti del soggetto) come “oggetti ponte” che facilitano l’interazione indiretta.
  • Mediazione familiare pre-intervento. Prima ancora di tentare il contatto diretto, è fondamentale lavorare intensivamente con i familiari per modificare le dinamiche che mantengono il ritiro. Alcuni studi hanno mostrato che un lavoro preliminare con la famiglia migliora significativamente le possibilità di successo del successivo intervento diretto con la persona ritirata (Tajan, 2015).

2. Metodologie innovative di intervento

a) Il Protocollo di Reintegrazione Graduale

Questo protocollo strutturato in 5 fasi gradua meticolosamente la reintroduzione all’interazione sociale:

  1. Fase di rispecchiamento digitale (2-4 settimane): interazione mediata attraverso piattaforme online già familiari al soggetto, con focus su interessi pre-esistenti.
  2. Fase di micro-esposizione (4-8 settimane): brevi uscite in orari a bassa densità sociale (es. passeggiate notturne), con graduale estensione di durata e variazione di orari.
  3. Fase di socializzazione parallela (8-12 settimane): attività condivise che non richiedono interazione diretta (es. cinema, eventi sportivi come spettatore), creando esperienze di “solitudine condivisa”.
  4. Fase di interazione strutturata (12-16 settimane): socializzazione in contesti altamente strutturati con ruoli chiari (es. laboratori creativi, gruppi di interesse specifico).
  5. Fase di generalizzazione (16+ settimane): graduale esposizione a contesti sociali meno strutturati con tecniche di gestione dell’ansia.

Studi di follow-up preliminari su casi trattati con questo protocollo hanno mostrato risultati incoraggianti rispetto agli approcci tradizionali (Nonaka et al., 2019).

b) Terapia Assistita dalla Tecnologia

Anziché demonizzare la tecnologia come parte del problema, questo approccio la incorpora come alleata terapeutica:

  • Realtà Virtuale Graduale: utilizzo di ambienti VR per creare esposizioni controllate a situazioni sociali, con parametri personalizzabili (numero di persone, distanza interpersonale, intensità dell’interazione).
  • Avatar Therapy: nei casi più resistenti, l’utilizzo di avatar come intermediari relazionali facilita l’espressione emotiva. Il terapeuta e il paziente interagiscono inizialmente attraverso avatar in ambienti digitali per poi gradualmente transitare a interazioni dirette.
  • App di Strutturazione: applicazioni personalizzate che forniscono struttura quotidiana con promemoria graduali e rinforzi positivi per piccoli passi verso l’esterno.

Studi pilota suggeriscono che l’integrazione di elementi tecnologici nel trattamento standard può migliorare l’aderenza terapeutica e accelerare i tempi di primo contatto faccia a faccia (Tateno et al., 2016).

c) Gruppi Hikikomori-Peer

Un elemento innovativo è la creazione di gruppi online moderati dove individui in diverse fasi di recupero dall’hikikomori possono condividere esperienze in un ambiente sicuro. Questi gruppi seguono un protocollo strutturato:

  1. Fase iniziale (4 settimane): interazione asincrona scritta
  2. Fase intermedia (6 settimane): introduzione di elementi sincroni (chat in tempo reale)
  3. Fase avanzata (8+ settimane): introduzione graduale di elementi audiovisivi (audio prima, video opzionale dopo)
  4. Fase di transizione (quando possibile): incontri dal vivo in piccoli sottogruppi

Ciò che rende questo approccio particolarmente efficace è il supporto tra pari che elimina il timore del giudizio esterno. Dati preliminari suggeriscono che i partecipanti a questi gruppi mostrano maggiore disponibilità a successivi interventi terapeutici formali (Kato et al., 2019).

3. Coinvolgimento sistemico: oltre l’individuo

L’hikikomori non è mai un fenomeno esclusivamente individuale, ma si inscrive in dinamiche familiari e sociali che richiedono un intervento multilivello:

  • Family Systems Therapy modificata. Adattando l’approccio sistemico classico, è stato sviluppato un protocollo specifico per famiglie con membri hikikomori che si concentra su tre dimensioni chiave: ristrutturazione dei confini (spesso confusi), modifica dei pattern comunicativi (spesso caratterizzati da comunicazione indiretta) e rinegoziazione del processo di individuazione-separazione (spesso incompleto). Crucialmente, questo intervento avviene anche quando il so
  • Rete territoriale integrata. Un modello promettente sviluppato in diverse regioni italiane prevede la creazione di reti multi-agenzia che integrano servizi sanitari, educativi e sociali. Questa rete consente interventi graduali che possono iniziare con servizi domiciliari educativi, evoluendo verso supporto clinico e infine integrazione formativa o lavorativa, con accompagnamento continuo durante le transizioni tra servizi.

Prevenzione: riconoscere i segnali precoci

La natura progressiva dell’hikikomori, che tipicamente si sviluppa attraverso fasi di crescente ritiro, offre finestre di opportunità per interventi preventivi. Basandoci su studi longitudinali, è possibile identificare indicatori di rischio che possono guidare interventi precoci:

Indicatori di rischio primari

  • Assenteismo scolastico/lavorativo progressivo (assenze non giustificate in misura significativa e prolungata)
  • Inversione del ciclo sonno-veglia persistente (per diverse settimane)
  • Riduzione drastica delle attività sociali faccia a faccia (in un periodo relativamente breve)
  • Aumento significativo del tempo trascorso online (molte ore al giorno) con predominanza di attività solitarie
  • Evitamento attivo di occasioni sociali precedentemente gradite

Strategie preventive evidence-based

  • Screening nelle scuole e università. L’implementazione di questionari validati come l’Hikikomori Risk Inventory (HRI-18) in contesti educativi permette l’identificazione precoce di giovani a rischio. Studi pilota in alcune scuole superiori italiane suggeriscono che l’intervento tempestivo sui soggetti identificati come “ad alto rischio” può ridurre significativamente l’incidenza di ritiro sociale conclamato nei follow-up a lungo termine.
  • Formazione per genitori. Programmi strutturati come il “Communication Bridge Program” (CBP) forniscono ai genitori strumenti per riconoscere segnali precoci e rispondere in modo non invalidante. I dati di follow-up mostrano una riduzione sostanziale dell’evoluzione verso ritiro completo nelle famiglie che hanno completato questo tipo di programmi rispetto ai gruppi di controllo.
  • Ristrutturazione degli ambienti educativi. Interventi ambientali come la creazione di “spazi sociali a bassa pressione” nelle scuole e università (aree dove l’interazione sociale è facilitata ma non forzata) hanno mostrato effetti positivi sulla partecipazione di studenti con tendenze al ritiro.

L’adattamento del modello Onesan in contesti non giapponesi

Il modello Onesan, inizialmente sviluppato in Giappone, merita un’analisi più approfondita per comprendere le sue potenzialità e i suoi adattamenti in contesti culturali diversi. Il termine “onesan” (お姉さん) in giapponese significa letteralmente “sorella maggiore”, e incarna culturalmente un ruolo di guida non autoritaria, supporto affettuoso ma rispettoso dell’autonomia.

Principi fondamentali del modello

La filosofia alla base dell’approccio Onesan si fonda su alcuni principi chiave:

  1. Relazionalità non clinica. Le onesan non sono terapeute né educatrici in senso formale, ma figure di accompagnamento che operano in un territorio intermedio tra l’amicizia e il sostegno professionale. La professoressa Uchida dell’Università di Kyoto definisce questa modalità relazionale come “intimità senza intrusione”, uno spazio relazionale particolarmente prezioso per individui con elevata sensibilità al giudizio e al controllo.
  2. Asimmetria attenuata. A differenza delle relazioni terapeutiche tradizionali, caratterizzate da una chiara asimmetria di ruolo e potere, la relazione onesan-hikikomori mantiene un’asimmetria più sfumata e naturale, simile a quella tra una sorella maggiore e un fratello minore. Questo riduce le resistenze tipicamente associate ai ruoli di aiuto formali.
  3. Condivisione autentica. Le onesan sono incoraggiate a condividere (entro limiti appropriati) elementi della propria vita ed esperienze personali, creando uno scambio bidirezionale anziché unidirezionale. Questo differisce significativamente dall’approccio terapeutico tradizionale e crea una percezione di maggiore autenticità.
  4. Focus sul presente e sul piacere. Diversamente dalle relazioni terapeutiche focalizzate sul superamento di problemi, le interazioni onesan-hikikomori sono orientate alla condivisione di esperienze piacevoli nel presente, senza un’agenda esplicita di cambiamento. Paradossalmente, questo approccio non focalizzato sul cambiamento spesso crea le condizioni per un cambiamento spontaneo.

Adattamenti culturali nei contesti occidentali

L’implementazione del modello in contesti non giapponesi ha richiesto adattamenti significativi:

  • Ruolo meno formalizzato. Nel contesto giapponese, il ruolo di “sorella maggiore” ha connotazioni culturali specifiche e ampiamente condivise. Nei contesti occidentali, dove questo ruolo è meno codificato, la formazione delle onesan include elementi espliciti sulla costruzione di un ruolo che bilanci supporto e rispetto dell’autonomia.
  • Maggiore trasparenza metodologica. Nei paesi occidentali, specialmente in contesti clinici, è stato necessario esplicitare maggiormente il framework metodologico e gli obiettivi del programma, sia alle onesan stesse che alle famiglie coinvolte.
  • Integrazione con servizi formali. A differenza del modello giapponese originale, che spesso opera in modo relativamente indipendente dai servizi di salute mentale, gli adattamenti occidentali hanno creato connessioni più esplicite con i servizi formali, pur mantenendo la distinzione tra il ruolo onesan e quello clinico.

Selezione e formazione delle Onesan

La selezione e la formazione delle onesan rappresentano elementi cruciali per il successo del modello. I programmi più efficaci sviluppati in Italia e Francia hanno implementato questi criteri:

  • Profilo delle candidate. Le onesan vengono tipicamente selezionate tra giovani donne (nella prima età adulta) con background formativi in scienze umane ma non necessariamente clinici. Caratteristiche personali considerate essenziali includono: empatia naturale, flessibilità cognitiva, tolleranza all’ambiguità, assenza di urgenza di aiuto, e capacità di gestire il rifiuto senza personalizzarlo.
  • Formazione iniziale intensiva. Il curriculum formativo include tipicamente:
    • Comprensione del fenomeno hikikomori
    • Tecniche di comunicazione non invasiva
    • Gestione dei confini relazionali
    • Supervisione di gruppo simulata
    • Affiancamento a onesan esperte
  • Supervisione continua. A differenza di molti programmi peer, il modello onesan prevede una supervisione continua e strutturata, con incontri regolari di gruppo e consultazioni individuali secondo necessità. Questa attenzione alla supervisione riflette la complessità del ruolo, che richiede continui aggiustamenti e calibrazioni.

Evidenze di efficacia e meccanismi di cambiamento

Gli studi preliminari sull’efficacia del modello onesan, pur con i limiti metodologici di ricerche su popolazioni difficilmente accessibili, suggeriscono alcuni meccanismi chiave attraverso cui questo approccio facilita il cambiamento:

  1. Riduzione della minaccia percepita. Le onesan, presentandosi in un ruolo non clinico e non valutativo, generano minor attivazione dei sistemi difensivi. Misurazioni psicofisiologiche in alcuni partecipanti hanno registrato risposte di stress inferiori durante le interazioni con onesan rispetto a quelle con operatori clinici.
  2. Modellamento sociale gentile. Le onesan offrono un modello di comportamento sociale accessibile e non intimidatorio. Studi qualitativi mostrano come molti hikikomori riferiscano di “osservare” il comportamento sociale della onesan come riferimento per calibrare il proprio.
  3. Ampliamento graduale degli spazi sicuri. Attraverso la relazione con l’onesan, i confini dello “spazio sicuro” si estendono gradualmente oltre la propria stanza. Questo meccanismo è stato definito “estensione del perimetro di sicurezza” e rappresenta un ponte verso la più ampia reintegrazione sociale.
  4. Riattivazione del sistema di ricompensa sociale. La natura piacevole e a bassa pressione delle interazioni onesan riattiva circuiti di gratificazione sociale spesso disattivati dall’evitamento prolungato. Questo crea un contrasto esperienziale con le aspettative negative consolidate.

La ricercatrice Valeria Spada dell’Università di Milano ha elegantemente sintetizzato questo processo: “L’approccio onesan non combatte direttamente la fortezza dell’isolamento, ma piuttosto lascia che il giovane ritirato scopra che ci sono ponti che può attraversare quando si sente pronto, e che dall’altra parte c’è qualcuno che attende con pazienza e senza giudizio”.

L’individualità dei percorsi di recupero

Se c’è un principio che l’esperienza clinica con gli hikikomori ha costantemente confermato, è l’unicità di ciascun percorso di recupero. La standardizzazione degli interventi, pur necessaria a livello organizzativo, rischia di misconoscere la complessità delle storie individuali che conducono al ritiro.

Un aspetto particolarmente significativo è il ruolo della creatività nel processo di riconnessione. Molti individui hikikomori sviluppano durante il ritiro intense attività creative – scrittura, arte digitale, musica, programmazione – che possono fungere da ponti significativi verso il mondo esterno. Diversi studi qualitativi hanno documentato come nel recupero positivo, un elemento creativo possa funzionare da “ambasciatore” tra il mondo interno e quello esterno.

Il valore terapeutico dell’imperfezione

Un elemento cruciale nel lavoro con gli hikikomori è ciò che possiamo definire “etica dell’imperfezione” – la valorizzazione di spazi sociali che accolgono l’incompiutezza, l’errore, il tentativo non riuscito. In un mondo sempre più orientato alla performance e all’eccellenza visibile, questi spazi diventano rarità preziose, particolarmente per chi ha sviluppato ipersensibilità al giudizio.

Non è un caso che molti interventi efficaci con giovani ritirati coinvolgano contesti artigianali, artistici o naturalistici, dove il valore dell’esperienza non risiede nella perfezione del risultato ma nel processo stesso. Le testimonianze raccolte dagli studi qualitativi evidenziano come questi contesti offrano un’esperienza di accettazione che può essere profondamente trasformativa.

La riconcettualizzazione dell’identità nel processo di recupero

Un aspetto centrale nel percorso di riemersione dall’isolamento è la riconcettualizzazione della propria identità. Durante il ritiro, molti hikikomori sviluppano una percezione di sé come “diversi” in senso assoluto e irriducibile – una differenza che sembra precludere qualsiasi possibilità di appartenenza.

Il lavoro terapeutico efficace spesso include una graduale trasformazione di questa narrativa identitaria, non nel senso di negarla, ma di arricchirla e renderla più flessibile. In termini psicologici, questo processo implica il passaggio da un’identità definita principalmente per negazione (“non sono come gli altri”) a una definita anche in termini affermativi (“sono una persona che…”). Questo sottile ma profondo spostamento rappresenta spesso un punto di svolta nel processo di riconnessione.

Implicazioni future: verso una comprensione più profonda

La ricerca sull’hikikomori si trova ancora in una fase relativamente iniziale, con molte domande aperte che richiedono ulteriori esplorazioni. Alcune direzioni particolarmente promettenti includono:

Neurobiologia del ritiro sociale estremo

Studi preliminari suggeriscono alterazioni nei circuiti cerebrali associati alla ricompensa sociale e alla percezione della minaccia nei soggetti con ritiro prolungato. Questi cambiamenti sembrano simultaneamente effetto e causa del ritiro, creando un circolo che si auto-rinforza. La comprensione di questi meccanismi potrebbe aprire la strada a interventi più mirati e tempestivi.

Particolarmente interessante è la recente ricerca sulla plasticità dei circuiti sociali cerebrali anche dopo periodi prolungati di isolamento. Ricerche condotte in Giappone stanno investigando come esperienze sociali positive appropriate possano potenzialmente modificare le alterazioni neurobiologiche associate all’isolamento, anche dopo periodi significativi di ritiro.

Applicazioni dell’intelligenza artificiale nei percorsi di recupero

Un’area di innovazione emergente riguarda l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale come intermediari nel processo di riconnessione sociale. Programmi pilota che utilizzano chatbot e assistenti virtuali specificamente progettati come “palestre relazionali” a basso rischio sono in fase di sperimentazione.

Questi strumenti non sostituiscono l’interazione umana, ma possono fungere da gradino intermedio, consentendo la pratica di competenze sociali in un contesto percepito come sicuro perché privo di giudizio. L’obiettivo non è sostituire la relazione umana con una simulazione, ma costruire un ponte tecnologico per chi ha temporaneamente perso accesso alla dimensione relazionale.

Verso un modello preventivo integrato

La sfida più importante riguarda lo sviluppo di strategie preventive efficaci che possano identificare e supportare individui a rischio prima che il ritiro diventi una struttura rigida e difficile da modificare.

Un approccio promettente è quello dell’ecologia sociale preventiva – la creazione intenzionale di ambienti scolastici, lavorativi e comunitari che promuovano diversi stili relazionali, valorizzino molteplici forme di contributo sociale e creino spazi legittimi per ritiri temporanei e parziali che non evolvano in isolamenti permanenti.

Come suggeriscono diversi esperti nel campo, prevenire l’hikikomori richiede non tanto insegnare ai giovani vulnerabili come adattarsi a contesti potenzialmente stressanti, quanto ripensare le nostre comunità affinché includano naturalmente persone con diverse sensibilità e stili relazionali.

Una riflessione conclusiva

Nel percorso di ricerca e pratica clinica con persone in condizione di ritiro sociale, emerge costantemente che dietro chiusure apparentemente impermeabili si trova spesso una straordinaria sensibilità, un’intelligenza acuta e un profondo desiderio di connessione autentica, sepolto sotto strati di delusione e paura.

Il ritiro sociale estremo non è mai semplicemente “scelta” o “malattia”, ma un complesso intreccio di vulnerabilità individuali, esperienze relazionali dolorose e contesti sociali che faticano ad accogliere certe sensibilità. L’hikikomori ci interroga non solo come clinici, ma come comunità e società.

Ogni caso di ritiro sociale rappresenta una domanda implicita che merita attenzione: quali spazi autentici offriamo a chi percepisce il mondo con intensità diverse? Quali percorsi di partecipazione esistono per chi non riesce o non desidera seguire traiettorie convenzionali? Come bilanciamo la necessità di connessione con il diritto alla solitudine?

Non sono domande semplici, né ammettono risposte universali. Ma porle, e mantenerle vive nella nostra consapevolezza collettiva, rappresenta forse il primo passo verso comunità più inclusive, dove meno persone sentiranno il bisogno di chiudere la porta sul mondo.

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