Se mai ci fosse un “manuale d’istruzioni” per le relazioni, sarebbe scritto in una lingua antica, con alcune pagine strappate e altre scritte al contrario. Le relazioni sono un po’ come quelle istruzioni di montaggio Ikea che sembrano chiarissime finché non ti ritrovi con un tavolo che ha tre gambe e un cassetto che non si apre. Eppure, c’è una chiave che può aiutarci a decifrare questo manuale: gli stili di attaccamento.
Sì, parliamo di quell’insieme di schemi emotivi che ci portiamo dietro dall’infanzia, come un bagaglio un po’ scomodo che non riusciamo mai a lasciare alla stazione. Ma niente panico: non siamo condannati a ripetere gli stessi errori per sempre. Con un po’ di consapevolezza e un pizzico di ironia, possiamo trasformare quei vecchi schemi in qualcosa di più funzionale.
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Cos’è l’attaccamento? (No, non parliamo di colla)
L’attaccamento è un concetto che risale agli anni ’50, quando lo psicologo John Bowlby decise di studiare come i bambini si relazionano con i loro caregiver (quelle persone che ci danno da mangiare, ci cambiano i pannolini e ci insegnano a non mettere le dita nelle prese elettriche). Bowlby teorizzò che il modo in cui ci attacchiamo alle figure di riferimento durante l’infanzia influenza il modo in cui ci relazioniamo agli altri da adulti.
In pratica, se da piccoli abbiamo avuto genitori che ci hanno fatto sentire al sicuro, è probabile che da adulti ci sentiremo a nostro agio nell’intimità e nelle relazioni. Se invece abbiamo avuto esperienze più… diciamo “traumatiche”, potremmo sviluppare uno stile di attaccamento più ansioso o evitante.
Ma non è tutto così deterministico. Lo stile di attaccamento non è scolpito nella pietra. È più come un’abitudine: può essere cambiata con un po’ di impegno e molta pazienza.
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I tre stili di attaccamento (e un quarto che non vuole essere incluso)
Secondo la teoria dell’attaccamento, ci sono tre stili principali (con un quarto che spesso viene aggiunto come bonus). Vediamoli uno per uno, con qualche esempio pratico per rendere tutto più chiaro.
1. Attaccamento sicuro: il “gold standard” delle relazioni
Se avete un amico che sembra sempre tranquillo, che non ha problemi a dire “ti amo” e che non si agita se il partner non risponde al messaggio entro 0,3 secondi, probabilmente avete a che fare con una persona con attaccamento sicuro.
Questo stile è il risultato di un’infanzia in cui i bisogni emotivi sono stati soddisfatti in modo coerente. Le persone con attaccamento sicuro tendono a:
– Fidarsi degli altri
– Comunicare in modo aperto e onesto
– Gestire i conflitti senza drammi (sì, è possibile!)
Un esempio? Immaginate una coppia che discute su chi debba lavare i piatti. Lui dice: “Tesoro, lo faccio io, ma magari domani tocca a te”. Lei risponde: “Perfetto, grazie!”. E la vita continua senza ulteriori drammi.
Lo stile sicuro ha un termostato ben calibrato: riesce a mantenere una temperatura emotiva confortevole, né troppo calda né troppo fredda, adattandosi in modo flessibile alle naturali oscillazioni della relazione.
2. Attaccamento ansioso: il dramma è servito
Passiamo ora allo stile ansioso, che è un po’ come un film di soap opera: emozioni intense, scenate improvvise e un bisogno costante di rassicurazione. Le persone con attaccamento ansioso tendono a:
– Preoccuparsi eccessivamente per le relazioni
– Cercare costantemente rassicurazioni (esempio classico: “Mi ami ancora?” dopo ogni litigio)
– Avere paura dell’abbandono
Immaginate una persona che manda 15 messaggi al partner perché non ha risposto entro 10 minuti. “Tutto ok? Perché non rispondi? Hai incontrato qualcun altro?”. E poi, quando finalmente riceve una risposta, si sente sollevata per circa 0,5 secondi prima di ricominciare a preoccuparsi.
Nello stile ansioso, il termostato è ipersensibile: basta un lieve raffreddamento della relazione (un messaggio non risposto, un tono di voce diverso) per far scattare l’allarme. La persona si ritrova sopraffatta dal bisogno di riconnessione, come se stesse cercando disperatamente di alzare la temperatura emotiva.
3. Attaccamento evitante: la fuga è l’unica opzione
Lo stile evitante è l’opposto di quello ansioso. Qui, l’intimità è vista come una minaccia. Le persone con attaccamento evitante tendono a:
– Mantenere una certa distanza emotiva
– Evitare conflitti (o affrontarli in modo passivo-aggressivo)
– Valorizzare l’indipendenza a scapito della connessione
Un esempio? Immaginate una coppia in cui uno dice: “Tesoro, possiamo parlare della nostra relazione?”. L’altro risponde: “Certo, ma prima devo… uh… lavare il cane. E poi ho un meeting. E poi forse mi viene la febbre”.
Nello stile evitante, invece, il termostato sembra programmato per mantenere una temperatura emotiva bassa: quando la relazione si fa troppo “calda” (richieste di maggiore intimità, espressioni intense di emozioni), scatta il bisogno di creare distanza per tornare in una zona di comfort più fredda.
4. Attaccamento disorganizzato: il caos emotivo
Questo stile è un mix tra ansioso e evitante, con una spruzzata di confusione in più. Le persone con attaccamento disorganizzato possono oscillare tra il desiderio di intimità e la paura di essere ferite. È un po’ come guidare un’auto senza freni: si va avanti, ma non si sa bene come.
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Come gli stili di attaccamento influenzano le relazioni (spoiler: molto)
Ora che abbiamo visto i diversi stili, è il momento di capire come questi influenzano le nostre relazioni. Spoiler: molto.
Le coppie sicure: il sogno di ogni psicologo
Le coppie in cui entrambi i partner hanno un attaccamento sicuro sono come quelle macchine che funzionano perfettamente: non fanno rumore, consumano poco e non hanno bisogno di manutenzione costante.
L’attaccamento sicuro in una coppia crea quello che potremmo chiamare un “campo di resilienza relazionale”. Questo campo si manifesta in tre dimensioni fondamentali:
La prima dimensione è la regolazione emotiva reciproca. Quando entrambi i partner hanno un attaccamento sicuro, riescono a mantenere quello che Daniel Siegel chiama “finestra di tolleranza emotiva” ottimale. Non si tratta semplicemente di “comunicare in modo efficace”, ma di creare un vero e proprio sistema di co-regolazione dove le emozioni di uno aiutano a stabilizzare quelle dell’altro. Per esempio, se un partner sta vivendo uno stress lavorativo, l’altro può offrire supporto senza sentirsi sopraffatto o minacciato dall’intensità emotiva della situazione.
La seconda dimensione riguarda la gestione dei conflitti. Le coppie sicure non evitano i conflitti, ma li attraversano in modo costruttivo grazie a quella che John Gottman chiama “riparazione emotiva”. È come se avessero un sistema immunitario relazionale che permette loro di “metabolizzare” le divergenze senza che queste intacchino il legame fondamentale. Quando emerge un disaccordo, riescono a mantenere quella che Sue Johnson definisce “connessione emotiva” anche mentre discutono di questioni difficili.
La terza dimensione concerne l’equilibrio tra autonomia e connessione. Le coppie sicure hanno sviluppato quello che David Schnarch chiama “differenziazione del sé”: la capacità di rimanere in contatto intimo con il partner mantenendo al contempo un solido senso di sé. Non si tratta solo di “non soffocarsi”, ma di creare uno spazio relazionale dove entrambi possono crescere individualmente proprio grazie alla sicurezza del legame.
Questo non significa che le coppie sicure non incontrino mai difficoltà. La differenza sta nel fatto che possiedono quello che potremmo chiamare un “GPS emotivo” interno che permette loro di:
- Riconoscere quando si stanno allontanando dal loro “centro sicuro”
- Comunicare questo disagio in modo non accusatorio
- Co-creare strategie per ritornare alla connessione
- Utilizzare le sfide come opportunità di crescita della relazione
È importante notare che l’attaccamento sicuro non è un tratto statico ma un processo dinamico che richiede manutenzione costante, anche se questa manutenzione risulta più naturale e meno faticosa rispetto alle coppie con stili di attaccamento insicuri.
Le coppie sicure ci mostrano che è possibile creare quello che Mary Ainsworth chiamava una “base sicura” anche nell’età adulta, dove il legame di attaccamento diventa una piattaforma per l’esplorazione e la crescita sia individuale che di coppia. Non è tanto l’assenza di problemi che le caratterizza, quanto la capacità di navigarli mantenendo intatta la connessione emotiva fondamentale.
Questo tipo di relazione può effettivamente sembrare il “sogno di ogni psicologo”, non tanto per la sua apparente perfezione, ma perché rappresenta un modello di salute relazionale che può ispirare il lavoro terapeutico con altre coppie, mostrando che è possibile sviluppare maggiore sicurezza nell’attaccamento attraverso esperienze relazionali riparative.
Le coppie ansioso-evitanti: la tempesta perfetta
Quando una persona ansiosa si innamora di una persona evitante, è come mettere un gatto e un topo nella stessa stanza: tanta tensione, poca armonia. L’ansioso cerca costantemente rassicurazioni, mentre l’evitante si ritrae. Il risultato? Un ciclo infinito di insoddisfazione e frustrazione.
Quando una persona con stile ansioso e una con stile evitante formano una coppia, si crea quello che in teoria dei sistemi chiamiamo un “ciclo di escalation complementare”. È come un’orchestra dove due strumenti suonano melodie che, invece di armonizzarsi, si amplificano a vicenda in modo disfunzionale.
Immaginiamo questo scenario tipico: la persona ansiosa nota che il partner è emotivamente distante durante una serata. Il suo sistema di attaccamento, già naturalmente sensibile, si attiva immediatamente interpretando questa distanza come una minaccia al legame. Reagisce quindi cercando maggiore vicinanza – magari facendo più domande, cercando contatto fisico, o esprimendo preoccupazione per la relazione.
Questa ricerca di vicinanza, perfettamente comprensibile dal punto di vista del partner ansioso, viene percepita dal partner evitante come una minaccia alla sua autonomia. Il suo sistema di attaccamento, programmato per mantenere la distanza emotiva quando si sente sotto pressione, risponde attivando le strategie di disattivazione: si ritira emotivamente, minimizza l’importanza della connessione, forse si immerge nel lavoro o in altre attività.
Questo ritiro, a sua volta, conferma le peggiori paure della persona ansiosa: “Vedi? Non gli importa di me, mi sta abbandonando”. La sua risposta naturale sarà intensificare gli sforzi per riconnettere, magari attraverso quello che Levine e Heller chiamano “proteste di attaccamento” – messaggi insistenti, richieste di rassicurazione, espressioni di rabbia o disperazione.
Più la persona ansiosa insegue, più quella evitante fugge. Più quella evitante fugge, più quella ansiosa insegue. È come una danza dove ogni partner, cercando di gestire la propria insicurezza, finisce per attivare le insicurezze dell’altro.
Questo ciclo è particolarmente insidioso perché si autoalimenta attraverso un fenomeno che i terapeuti chiamano “conferma delle credenze nucleari”. La persona ansiosa, vedendo il partner allontanarsi, trova conferma della sua convinzione che “non sono abbastanza, le persone mi abbandonano sempre”. La persona evitante, sentendosi pressata per maggiore intimità, conferma la sua credenza che “le relazioni sono soffocanti, devo proteggermi mantenendo le distanze”.
La tragica ironia è che spesso queste coppie si formano proprio perché i loro stili di attaccamento opposti creano una forte attrazione iniziale. La persona ansiosa può essere attratta dalla percezione di “sfida” nel conquistare qualcuno che sembra emotivamente distante, mentre quella evitante può essere attratta dalla possibilità di ricevere amore incondizionato senza dover ricambiare allo stesso livello.
È possibile interrompere questo ciclo? Sì, ma richiede un lavoro consapevole da entrambe le parti:
- La persona ansiosa deve imparare a regolare meglio le sue attivazioni emotive e trovare modi di autorassicurazione
- La persona evitante deve sviluppare maggiore tolleranza per l’intimità emotiva e imparare a rimanere presente anche quando si sente sopraffatta
- Entrambi devono imparare a riconoscere i propri pattern reattivi e comunicare in modo più diretto i propri bisogni
Spesso questo lavoro richiede il supporto di un terapeuta che possa aiutare la coppia a creare quello che Sue Johnson chiama un “porto sicuro emotivo”, dove entrambi possano sentirsi abbastanza al sicuro da modificare i loro pattern disfunzionali di attaccamento.
Le coppie disorganizzate: il caos emotivo
Qui le cose si fanno davvero complicate. Le coppie con attaccamento disorganizzato possono passare dall’amore all’odio in pochi secondi, creando un’atmosfera instabile e stressante.
L’attaccamento disorganizzato nelle relazioni di coppia è uno dei fenomeni più complessi e sfidanti che possiamo osservare nella psicologia delle relazioni. Per comprendere veramente queste dinamiche, dobbiamo prima capire che l’attaccamento disorganizzato si sviluppa tipicamente in risposta a traumi relazionali precoci, dove le figure di attaccamento erano fonte sia di protezione che di minaccia.
Immaginiamo un bambino che cerca conforto da un genitore che a volte è amorevole e altre volte spaventante. Il sistema di attaccamento del bambino si trova in un paradosso impossibile: la stessa persona che dovrebbe essere fonte di sicurezza diventa fonte di paura. Questo crea quello che i teorici dell’attaccamento chiamano “paura senza soluzione”, dove né l’avvicinamento né l’allontanamento possono risolvere il dilemma emotivo.
Quando questo pattern si trasferisce nelle relazioni adulte, crea una dinamica relazionale caratterizzata da quella che potremmo chiamare “ambivalenza simultanea”. La persona con attaccamento disorganizzato può sperimentare contemporaneamente un intenso desiderio di vicinanza e un terrore paralizzante dell’intimità. È come se il sistema di attaccamento stesse cercando di premere l’acceleratore e il freno allo stesso tempo.
Questa dinamica si manifesta in diversi modi caratteristici:
La “dissociazione relazionale”: Durante momenti di stress emotivo, la persona può disconnettersi improvvisamente dalla propria esperienza emotiva o da quella del partner. È come se il sistema nervoso, sopraffatto dall’intensità emotiva, attivasse un interruttore di emergenza.
I “cambiamenti improvvisi di stato”: La persona può passare rapidamente da uno stato emotivo all’altro senza apparente transizione. Un momento di tenera intimità può trasformarsi improvvisamente in ostilità o distacco, lasciando il partner disorientato e confuso.
La “comunicazione paradossale”: La persona può inviare messaggi contraddittori simultanei, come cercare vicinanza fisica mentre esprime verbalmente ostilità. Questo crea nel partner una forma di “doppio legame” emotivo dove nessuna risposta sembra giusta.
Quando entrambi i partner hanno un attaccamento disorganizzato, la relazione può diventare quello che Pat Ogden chiama un “campo traumatico condiviso”. Ogni partner trigger inconsapevolmente i traumi dell’altro, creando cicli di attivazione traumatica che si autoalimentano.
Il percorso di guarigione per queste coppie richiede un approccio multilivello:
- Stabilizzazione del sistema nervoso attraverso pratiche di regolazione emotiva
- Sviluppo di capacità di mentalizzazione per comprendere i propri stati interni e quelli del partner
- Creazione graduale di esperienze di sicurezza relazionale
- Elaborazione dei traumi sottostanti in un contesto terapeutico sicuro
È fondamentale comprendere che il caos emotivo di queste relazioni non è un segno di “pazzia” o di mancanza di amore, ma il risultato comprensibile di strategie di sopravvivenza sviluppate in risposta a traumi relazionali precoci. Con il giusto supporto terapeutico e la disponibilità di entrambi i partner a fare un lavoro profondo di guarigione, è possibile sviluppare gradualmente maggiore coerenza e sicurezza nel legame.
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Come cambiare il proprio stile di attaccamento (sì, è possibile)
Se vi state riconoscendo in uno di questi stili e non vi piace quello che vedete, niente panico. Lo stile di attaccamento non è una condanna a vita. Con un po’ di lavoro su sé stessi, è possibile sviluppare un attaccamento più sicuro.
1. Diventare consapevoli dei propri schemi
Il primo passo è riconoscere i propri schemi di attaccamento.
Possiamo pensare a questo processo come a una sorta di “archeologia emotiva”, dove scaviamo attraverso diversi strati della nostra esperienza per comprendere i pattern che guidano il nostro comportamento nelle relazioni intime.
Per comprendere i nostri schemi di attaccamento, dobbiamo prima sviluppare quella che i neuroscienziati chiamano “consapevolezza interocettiva” – la capacità di percepire e interpretare i segnali interni del nostro corpo. Quando il partner non risponde a un messaggio, dove sentiamo per prima cosa questa attivazione nel corpo? Forse è una tensione allo stomaco, un’accelerazione del battito cardiaco, o una sensazione di costrizione al petto. Queste sensazioni fisiche sono come campanelli d’allarme del nostro sistema di attaccamento.
Il passo successivo è osservare la catena di pensieri automatici che si attiva in risposta a questi segnali corporei. Una persona con attaccamento ansioso potrebbe iniziare un monologo interno del tipo: “Non gli importa di me, sta ignorando i miei messaggi apposta, forse sta parlando con qualcun altro”. Una persona con attaccamento evitante potrebbe invece pensare: “Non ho bisogno di una risposta immediata, sto bene da solo/a, non dovrei dipendere così tanto da qualcuno”.
È particolarmente importante notare i comportamenti che mettiamo in atto per gestire l’attivazione del sistema di attaccamento. Questi comportamenti spesso seguono pattern prevedibili che possiamo mappare:
Il pattern ansioso tipicamente include:
- Controllare ossessivamente il telefono
- Inviare messaggi multipli cercando una risposta
- Cercare rassicurazioni da amici o familiari
- Immaginare scenari catastrofici
Il pattern evitante invece si manifesta attraverso:
- Minimizzazione dell’importanza della comunicazione
- Immersione in attività distraenti
- Razionalizzazione del distacco emotivo
- Attivazione di un “modalità autopilota” emotiva
Una volta identificati questi pattern, possiamo iniziare quello che Daniel Siegel chiama “mindsight” – la capacità di osservare i nostri stati mentali senza esserne completamente assorbiti. È come creare un “osservatorio interno” da cui possiamo vedere le nostre reazioni senza necessariamente agirle automaticamente.
Questo lavoro di consapevolezza richiede tempo e pazienza. È utile tenere un “diario dell’attaccamento” dove registrare:
- Le situazioni che attivano il nostro sistema di attaccamento
- Le sensazioni fisiche che emergono
- I pensieri automatici che si presentano
- I comportamenti che mettiamo in atto
- Le conseguenze di questi comportamenti sulla relazione
La chiave è sviluppare quella che potremmo chiamare una “presenza testimone” – la capacità di osservare i nostri pattern senza giudicarli, riconoscendo che sono strategie adattive che abbiamo sviluppato per proteggerci, ma che potrebbero non servirci più nel presente.
Questo processo di consapevolezza non è fine a se stesso, ma è il primo passo fondamentale per poter poi iniziare a modificare questi pattern in modo consapevole e graduale, creando nuove possibilità di risposta alle attivazioni del sistema di attaccamento.
2. Comunicare in modo aperto e onesto
La comunicazione è la chiave per qualsiasi relazione sana. Se avete uno stile ansioso, provate a esprimere i vostri bisogni senza aspettare che l’altro indovini. Se siete evitanti, provate a essere più aperti riguardo ai vostri sentimenti.
Quando parliamo di comunicazione aperta e onesta nel contesto dell’attaccamento, stiamo parlando di quello che gli psicologi dell’attaccamento chiamano “comunicazione emotivamente sintonizzata”.
Per comprendere questo concetto, immaginiamo la comunicazione come una danza dove entrambi i partner devono trovare un ritmo comune. Questa danza diventa particolarmente complessa quando i partner hanno stili di attaccamento diversi, perché stanno essenzialmente “ballando su musiche diverse”.
Per la persona con stile ansioso, la sfida principale nella comunicazione è trovare il coraggio di esprimere i propri bisogni senza utilizzare strategie indirette o manipolative. Spesso, queste persone hanno imparato nell’infanzia che i bisogni diretti venivano ignorati o puniti, quindi hanno sviluppato modi indiretti di comunicare. Per esempio, invece di dire “Mi sento solo e ho bisogno di passare del tempo con te”, potrebbero esprimere irritazione per altre cose o creare situazioni che forzano l’attenzione del partner.
Il processo di sviluppo di una comunicazione più diretta per una persona ansiosa richiede diversi passaggi:
Prima di tutto, devono imparare a riconoscere e validare i propri bisogni internamente. Questo significa accettare che avere bisogno di connessione e rassicurazione è naturale e legittimo. È come dare a se stessi il permesso di avere sete.
Successivamente, devono sviluppare quello che potremmo chiamare un “linguaggio dei bisogni” chiaro e non accusatorio. Invece di dire “Non mi dai mai abbastanza attenzione”, possono imparare a dire “Quando passiamo più tempo insieme, mi sento più connesso e sicuro nella nostra relazione”.
Per la persona con stile evitante, la sfida è diversa. Il loro sistema nervoso è programmato per vedere l’intimità emotiva come una minaccia, quindi la comunicazione aperta richiede di superare potenti meccanismi di difesa. È come chiedere a qualcuno di aprire una finestra durante una tempesta – la paura dell’acqua che potrebbe entrare (leggi: emozioni travolgenti) può sembrare più pericolosa del beneficio dell’aria fresca.
Il percorso verso una maggiore apertura emotiva per una persona evitante può includere:
L’apprendimento della “dosatura emotiva” – iniziare con piccole aperture in momenti di relativa calma, come condividere una preoccupazione minore per testare la risposta del partner. È come aprire gradualmente un rubinetto invece di spalancare una diga.
Lo sviluppo di quello che potremmo chiamare un “vocabolario emotivo graduale”. Molte persone evitanti hanno un repertorio limitato per esprimere emozioni, oscillando tra “sto bene” e “non sto bene”. Possono imparare a riconoscere e comunicare sfumature più sottili dei loro stati emotivi.
Per entrambi gli stili, è fondamentale sviluppare quella che Sue Johnson chiama “conversazioni di attaccamento” – dialoghi che vanno oltre gli eventi superficiali per toccare i bisogni e le paure più profondi. Queste conversazioni seguono una struttura che potremmo chiamare “A.R.T.E.”:
Apertura: Creare un momento dedicato alla comunicazione profonda Riconoscimento: Validare le emozioni dell’altro senza cercare di risolverle Trasparenza: Condividere onestamente i propri stati interni Esplorazione: Cercare insieme modi per soddisfare i bisogni di entrambi
Questo tipo di comunicazione richiede pratica e pazienza. È come imparare una nuova lingua – all’inizio può sembrare innaturale e faticoso, ma con il tempo diventa più fluida e spontanea. L’obiettivo non è la perfezione, ma la creazione di un “spazio sicuro” dove entrambi i partner possono gradualmente aprirsi senza temere il giudizio o il rifiuto.
3. Lavorare sulla fiducia
La fiducia è fondamentale per un attaccamento sicuro. Se avete avuto esperienze negative in passato, può essere difficile fidarsi degli altri, ma con il tempo e l’impegno è possibile ricostruire questa fiducia.
Quando parliamo di fiducia nell’attaccamento, non ci riferiamo solo alla fiducia razionale (“so che il mio partner non mi tradirà”), ma a quella che potremmo chiamare “fiducia emotiva” – la capacità viscerale di sentirsi al sicuro nella relazione anche nei momenti di vulnerabilità. Questa fiducia si sviluppa attraverso quello che Allan Schore chiama “regolazione affettiva interattiva” – un processo in cui gradualmente impariamo che possiamo contare sull’altro per il supporto emotivo.
Le persone con traumi relazionali passati spesso sviluppano quello che potremmo chiamare un “sistema di allarme iperattivo”. È come avere un rilevatore di fumo troppo sensibile che suona anche per un po’ di vapore dalla doccia. Questo sistema è stato programmato dalle esperienze dolorose del passato per proteggerci, ma nel presente può impedirci di sviluppare relazioni intime sane.
Il processo di ricostruzione della fiducia richiede diversi passaggi fondamentali:
Prima di tutto, dobbiamo sviluppare quella che Dan Siegel chiama “coerenza narrativa” – la capacità di comprendere come le nostre esperienze passate influenzano il presente senza esserne prigionieri. Questo significa riconoscere che la nostra difficoltà a fidarci non è un difetto caratteriale, ma una risposta adattiva a esperienze dolorose.
Il secondo passo è quello che potremmo chiamare “ricalibrazione del sistema di allarme“. Questo avviene attraverso ripetute esperienze di sicurezza nella relazione attuale. Ogni volta che esprimiamo un bisogno e riceviamo una risposta empatica, ogni volta che mostriamo vulnerabilità e veniamo accolti, il nostro sistema nervoso registra un’esperienza correttiva.
Un aspetto cruciale di questo processo è quello che Mary Main chiama “monitoraggio metacognitivo” – la capacità di osservare i nostri processi mentali mentre si svolgono. Per esempio, possiamo imparare a riconoscere quando stiamo proiettando esperienze passate sulla situazione presente: “Sto reagendo così perché il mio ex partner mi ha tradito, o c’è qualcosa di reale nella situazione attuale che dovrei considerare?”
La costruzione della fiducia richiede anche lo sviluppo di quella che potremmo chiamare “resilienza relazionale” – la capacità di mantenere un senso di connessione anche durante i momenti di stress o conflitto. Questo significa imparare che i disaccordi o i momenti di disconnessione non significano necessariamente abbandono o tradimento.
Il processo di costruzione della fiducia richiede pazienza e quello che Brené Brown chiama “piccoli momenti di coraggio” – la disponibilità a rischiare piccole vulnerabilità per permettere al partner di dimostrarsi affidabile. È come costruire un ponte: ogni esperienza positiva aggiunge un mattone alla struttura della fiducia.
4. Rivolgersi a un professionista
Se vi sentite bloccati, non esitate a rivolgervi a uno psicologo. Un professionista può aiutarvi a capire meglio i vostri schemi e a sviluppare strategie per migliorare le vostre relazioni.
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Conclusione: l’attaccamento è solo l’inizio
Gli stili di attaccamento sono una parte importante delle nostre relazioni, ma non sono l’unica cosa che conta. Le relazioni sono complesse e multifattoriali, e ci vuole molto più di un buon attaccamento per farle funzionare.
Detto questo, capire il proprio stile di attaccamento può essere un ottimo punto di partenza. È come avere una mappa: non vi dirà esattamente dove andare, ma vi aiuterà a orientarvi nel labirinto delle relazioni.
E ricordate: nessuno è perfetto. Nemmeno le persone con attaccamento sicuro hanno relazioni perfette. L’importante è lavorare su sé stessi e migliorare giorno dopo giorno.
Disclaimer
Questa guida non ha alcuna finalità nel fornire consigli psicologici o scientifici. Se state affrontando problemi personali o relazionali, vi invitiamo a rivolgervi a un professionista qualificato. Le informazioni qui contenute sono a scopo informativo e non sostituiscono il parere di uno psicologo o di un altro esperto.
Bibliografia
1. Bowlby, J. (1969). *Attachment and Loss: Vol. 1. Attachment*. Basic Books.
2. Levine, A., & Heller, R. (2010). *Attached: The New Science of Adult Attachment and How It Can Help You Find – and Keep – Love*. TarcherPerigee.
3. Mikulincer, M., & Shaver, P. R. (2007). *Attachment in Adulthood: Structure, Dynamics, and Change*. Guilford Press.
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