Introduzione: quando il lavoro diventa una droga
In un’epoca in cui la produttività è diventata un nuovo culto e il “multitasking” viene celebrato come fosse una virtù cardinale, emerge un fenomeno tanto diffuso quanto insidioso: la dipendenza da lavoro, o “workaholism”, come direbbero i nostri colleghi anglosassoni che hanno l’insana abitudine di creare neologismi per ogni comportamento umano. Così come esistono dipendenze da sostanze, gioco d’azzardo o social media, anche l’attività lavorativa può trasformarsi da semplice mezzo di sostentamento a vera e propria ossessione patologica.
Questa guida si propone di esaminare la dipendenza da lavoro attraverso la lente della psicologia contemporanea, analizzandone le cause, i sintomi, le conseguenze e i possibili interventi terapeutici. Naturalmente, il fatto che stiate leggendo questo testo durante la pausa pranzo, rispondendo contemporaneamente a email sul telefono, potrebbe già essere un segnale da non sottovalutare.
Definizione e inquadramento teorico
Evoluzione del concetto di dipendenza da lavoro
Il termine “workaholic” fu coniato dallo psicologo Wayne Oates nel 1971, in un articolo intitolato “Confessioni di un workaholic”, dove descriveva la propria relazione compulsiva con il lavoro. Da allora, il concetto ha subito numerose riformulazioni teoriche.
La dipendenza da lavoro può essere definita come un disturbo caratterizzato da un coinvolgimento eccessivo e compulsivo nell’attività lavorativa, che persiste nonostante le conseguenze negative sulla salute, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale. È fondamentalmente l’equivalente psicologico di quell’amico che non sa parlare d’altro che del proprio lavoro durante le cene, facendo fuggire progressivamente tutti i suoi conoscenti.
Modelli teorici interpretativi
Diversi modelli teorici hanno tentato di spiegare questo fenomeno:
- Modello psicodinamico: interpreta la dipendenza da lavoro come un meccanismo di difesa contro ansie profonde o sentimenti di inadeguatezza. In pratica, il soggetto riempie ogni spazio della propria esistenza con il lavoro per evitare di confrontarsi con domande esistenziali come “chi sono io oltre al mio lavoro?” o “perché non riesco a guardare un film senza controllare le email?”.
- Modello cognitivo-comportamentale: evidenzia come pensieri disfunzionali (“Se non lavoro costantemente, fallirò”) e rinforzi comportamentali (riconoscimenti professionali, status) mantengano il ciclo della dipendenza. È il classico caso di chi riceve un complimento per aver lavorato durante il weekend e lo interpreta come un invito a lavorare anche durante le festività nazionali.
- Modello neurobiologico: focalizza l’attenzione sui meccanismi di ricompensa cerebrale, simili a quelli attivati nelle dipendenze da sostanze. Ogni email completata, ogni progetto concluso, ogni notifica professionale genera un piccolo rilascio di dopamina che, con il tempo, diventa necessario al funzionamento psichico della persona. È scientificamente provato che alcuni manager avvertono sintomi di astinenza se non possono controllare il proprio smartphone per più di 20 minuti.
- Modello socioculturale: analizza come la cultura contemporanea, che esalta la produttività e il successo professionale, contribuisca allo sviluppo della dipendenza da lavoro. In questo contesto, lavorare 60 ore a settimana non è più considerato un problema, ma un “esempio di dedizione” da celebrare sui social media con hashtag come #hustle o #neverrest.
Epidemiologia: numeri di un fenomeno in crescita
Prevalenza e distribuzione
Gli studi epidemiologici indicano che la dipendenza da lavoro colpisce tra il 7% e il 10% della popolazione lavorativa nei paesi industrializzati, con percentuali più elevate in settori come la finanza, la consulenza, la tecnologia e, ironia della sorte, la psicologia accademica. Il fatto che molti dei ricercatori che studiano la dipendenza da lavoro siano essi stessi workaholic rappresenta un delizioso paradosso metodologico.
Fattori di rischio
Diversi fattori aumentano la probabilità di sviluppare una dipendenza da lavoro:
- Fattori individuali: perfezionismo, bassa autostima, tratti ossessivo-compulsivi, difficoltà a delegare. Il soggetto tipico è colui che riformatta tre volte una presentazione PowerPoint alle 2 di notte, convinto che nessun altro potrebbe farlo “nel modo giusto”.
- Fattori familiari: modelli genitoriali che hanno associato l’amore e l’accettazione alla performance e al successo. “Non importa quanto ti sei impegnato, importa solo che tu sia il primo” è il mantra non detto di molte famiglie che producono futuri workaholic.
- Fattori organizzativi: culture aziendali che premiano l’eccesso di lavoro, disponibilità 24/7, mancanza di confini tra vita professionale e personale. Alcune aziende hanno trasformato gli uffici in resort con palestre, lavanderie e ristoranti gratuiti, non per generosità, ma per assicurarsi che i dipendenti non abbiano mai motivo di andarsene.
- Fattori socioeconomici: precarietà lavorativa, competitività del mercato, idealizzazione mediatica del “self-made man” che ha successo sacrificando tutto il resto. La società contemporanea ha sostituito i santi martiri medievali con gli imprenditori che dormono in ufficio e si vantano di non aver mai preso un giorno di ferie.
Diagnosi: riconoscere il workaholic
Criteri diagnostici
Sebbene la dipendenza da lavoro non sia ufficialmente riconosciuta come diagnosi nei manuali diagnostici standard (DSM-5 e ICD-11), i ricercatori hanno proposto diversi criteri diagnostici:
- Salienza: il lavoro diventa l’attività più importante della vita, dominando pensieri, emozioni e comportamenti. Il soggetto pianifica le vacanze in base alla copertura Wi-Fi e considera il proprio computer portatile come un prolungamento del proprio corpo.
- Tolleranza: necessità di aumentare progressivamente il tempo dedicato al lavoro per ottenere la stessa soddisfazione. Inizia con qualche ora extra, poi i weekend, poi le vacanze diventano “workation” e infine anche il matrimonio viene pianificato in modo da poter controllare le email tra la cerimonia e il ricevimento.
- Sintomi di astinenza: ansia, irritabilità, insonnia e senso di vuoto quando non si lavora. È riconoscibile dalla classica espressione di panico che compare sul volto del workaholic quando scopre che la destinazione della gita aziendale non ha copertura di rete.
- Conflitto: contrasti con altre attività di vita (famiglia, amicizie, hobby, cura di sé). Il soggetto sviluppa una gerarchia di priorità in cui gli amici sono posizionati appena sopra “aggiornare il sistema operativo” ma ben sotto “rispondere a email non urgenti”.
- Ricaduta: tendenza a tornare rapidamente ai precedenti pattern di lavoro eccessivo dopo periodi di controllo. Le promesse come “questo weekend non controllo le email” durano in media 6,4 ore prima di essere infrante.
- Negazione: minimizzazione del problema nonostante le evidenti conseguenze negative. “Non sono un workaholic, sono solo appassionato del mio lavoro” è la versione professionale di “posso smettere quando voglio”.
Strumenti di valutazione
Diverse scale sono state sviluppate per valutare la dipendenza da lavoro:
- Work Addiction Risk Test (WART): valuta dimensioni come tendenze compulsive, controllo, comunicazione compromessa e autostima.
- Dutch Work Addiction Scale (DUWAS): misura due componenti principali: il lavoro eccessivo (dimensione comportamentale) e il lavoro compulsivo (dimensione cognitiva).
- Bergen Work Addiction Scale (BWAS): basata sui criteri generali della dipendenza, adattati al contesto lavorativo.
È interessante notare come queste scale siano spesso compilate dai soggetti durante le pause pranzo, trasformando anche l’autovalutazione della propria dipendenza in un’attività lavorativa.
Manifestazioni cliniche: la sintomatologia del workaholic
Sintomi comportamentali
- Orario lavorativo esteso ben oltre le normali ore contrattuali
- Difficoltà a staccarsi da dispositivi elettronici legati al lavoro
- Portare regolarmente lavoro a casa o in vacanza
- Trasformare ogni attività sociale in un’opportunità di networking
- Rispondere a email professionali durante eventi familiari significativi (compleanni, anniversari, funerali)
Sintomi cognitivi
- Pensieri ricorrenti e intrusivi relativi al lavoro
- Preoccupazione costante per scadenze e progetti
- Incapacità di rilassarsi senza sentirsi in colpa
- Convinzioni rigide sul successo e sulla produttività
- Tendenza a trasformare ogni conversazione in un discorso sul proprio lavoro, con la stessa insistenza di un neo-genitore che mostra foto del proprio bambino
Sintomi emotivi
- Ansia e irrequietezza quando non si lavora
- Senso di identità quasi esclusivamente derivato dal ruolo professionale
- Euforia temporanea legata a risultati lavorativi, seguita da rapido svuotamento
- Irritabilità quando interrotti durante attività lavorative
- Sentimenti di vuoto durante il tempo libero, accompagnati dalla convinzione che guardare una serie TV senza controllare simultaneamente le email sia una forma di pigrizia morale
Sintomi fisici
- Disturbi del sonno (insonnia, risvegli frequenti con pensieri lavorativi)
- Sintomi gastrointestinali legati allo stress
- Cefalee tensionali e dolori muscolari
- Affaticamento cronico paradossalmente ignorato continuando a lavorare
- Invecchiamento accelerato, visibile specialmente nella differenza tra l’età anagrafica e quella attribuita dai colleghi più giovani
Conseguenze: il prezzo dell’iperlavoro
Conseguenze sulla salute fisica
La dipendenza da lavoro è associata a numerosi problemi di salute:
- Aumento del rischio cardiovascolare
- Compromissione del sistema immunitario
- Disturbi metabolici
- Problemi posturali cronici
- Alimentazione irregolare e spesso basata esclusivamente su cibo da asporto e caffè in quantità tali da mantenere in attivo l’economia di interi paesi produttori
Conseguenze sulla salute mentale
Sul piano psicologico, le ricerche documentano:
- Aumento dei livelli di stress cronico
- Maggiore incidenza di disturbi d’ansia e depressivi
- Burnout professionale
- Ridotta capacità di provare piacere in attività non lavorative (anedonia)
- Sviluppo di un peculiare senso dell’umorismo basato esclusivamente su battute relative a fogli di calcolo e riunioni improduttive
Conseguenze relazionali
La sfera interpersonale risulta particolarmente colpita:
- Deterioramento delle relazioni familiari
- Isolamento sociale progressivo
- Difficoltà a mantenere relazioni sentimentali
- Incapacità di partecipare emotivamente a eventi significativi
- Tendenza a valutare l’efficienza delle interazioni sociali come se fossero riunioni aziendali, completa di analisi post-conversazione sulle performance comunicative
Conseguenze organizzative
Paradossalmente, la dipendenza da lavoro può risultare controproducente anche sul piano professionale:
- Riduzione dell’efficienza reale dovuta all’esaurimento
- Diminuzione della creatività e dell’innovazione
- Aumento degli errori per affaticamento
- Conflitti con colleghi meno “dediti” al lavoro
- Creazione di una cultura tossica in cui l’equilibrio vita-lavoro viene considerato un concetto sovversivo, quasi rivoluzionario
Eziologia: alle radici del problema
Fattori psicologici
Diverse caratteristiche psicologiche predispongono alla dipendenza da lavoro:
- Perfezionismo maladattivo: standard irragionevolmente elevati e autocritica severa. Il perfezionista patologico non è soddisfatto finché non ha rivisto un documento almeno 17 volte, e anche allora si chiede se non avrebbe potuto usare un sinonimo più appropriato nel terzo paragrafo.
- Bassa autostima compensata dal successo professionale: il lavoro diventa l’unica fonte di validazione personale. L’equazione implicita è: valore personale = risultati professionali + ore lavorate – ore di sonno.
- Tendenze ossessivo-compulsive: rigidità cognitiva e necessità di controllo. L’ordine delle email nella casella di posta diventa più importante dell’ordine cosmico dell’universo.
- Disturbi d’ansia non trattati: il lavoro come strategia di evitamento. Finché si è concentrati su una presentazione, non si ha tempo di preoccuparsi dell’inevitabile collasso della civiltà o del fatto che nessuno abbia risposto al messaggio inviato tre ore fa.
Fattori familiari e educativi
Il contesto di sviluppo gioca un ruolo cruciale:
- Modelli genitoriali orientati alla performance: l’affetto è condizionato ai risultati. “Ti vogliamo bene perché sei bravo” si trasforma in adulti che credono di dover essere sempre produttivi per meritare considerazione.
- Aspettative familiari elevate: pressione per il successo accademico e professionale. Alcune famiglie appendono al frigorifero i voti scolastici come altri appenderebbero fotografie di vacanze felici.
- Dinamiche disfunzionali: il lavoro come fuga da un ambiente familiare problematico. L’ufficio diventa un rifugio paradossalmente più accogliente della propria casa.
Fattori socioculturali
Il contesto sociale contemporaneo favorisce la dipendenza da lavoro:
- Cultura della performance e della produttività: glorificazione sociale del “sempre occupato”. Rispondere “sono molto impegnato” alla domanda “come stai?” è diventato un segno di status più che un lamento.
- Tecnologia e reperibilità costante: confini lavorativi sfumati dall’onnipresenza digitale. Lo smartphone ha trasformato ogni toilette in un potenziale ufficio e ogni pausa pranzo in una videoconferenza.
- Precarietà lavorativa: insicurezza economica e competizione esasperata. In un mercato volatile, lavorare il doppio sembra l’unica assicurazione contro il licenziamento.
- Social media e confronto sociale: esposizione costante ai successi professionali altrui. LinkedIn ha trasformato il curriculum vitae in uno spettacolo pubblico in cui ogni promozione deve essere celebrata come una vittoria olimpica.
Fattori organizzativi
L’ambiente lavorativo può essere determinante:
- Culture aziendali tossiche: valorizzazione implicita o esplicita del sovraccarico lavorativo. Alcune organizzazioni considerano le 40 ore settimanali una sorta di “part-time implicito” riservato a chi “non ha abbastanza fame di successo”.
- Leadership workaholic: dirigenti che modellano e normalizzano comportamenti disfunzionali. Il capo che invia email alle 3 del mattino non è solo un problema personale, ma un potente generatore di norme implicite.
- Sistemi di ricompensa distorti: promozioni e riconoscimenti basati sulle ore lavorate piuttosto che sui risultati effettivi. Il merito viene misurato in funzione di chi spegne le luci in ufficio.
- Confini vita-lavoro sfumati: benefit aziendali come palestre e mense interne che incentivano la permanenza in ufficio. L’azienda si trasforma in un hotel all-inclusive dove, guarda caso, c’è sempre da lavorare.
Trattamento: strategie d’intervento
Interventi psicoterapeutici
Diverse approcci terapeutici si sono dimostrati efficaci:
- Terapia cognitivo-comportamentale (CBT): ristrutturazione delle convinzioni disfunzionali sul lavoro e introduzione graduale di comportamenti equilibrati. Il paziente impara progressivamente che il mondo non collassa se non controlla le email per 3 ore consecutive.
- Mindfulness e terapie basate sulla consapevolezza: sviluppo della capacità di essere presenti nel momento, riducendo la ruminazione su questioni lavorative. Il workaholic scopre con stupore che esistono altre sensazioni oltre allo stress e all’ansia da scadenza.
- Terapia psicodinamica: esplorazione delle motivazioni profonde e dei conflitti inconsci legati al lavoro compulsivo. Spesso emerge che dietro l’apparente dedizione professionale si nasconde un bambino che cercava disperatamente l’approvazione di figure genitoriali esigenti.
- Terapia di gruppo: condivisione di esperienze con altri workaholic in recupero. Il gruppo offre il vantaggio di far sentire meno soli e di smontare l’idea che lavorare 80 ore a settimana sia normale attraverso il confronto con altri “sopravvissuti”.
Interventi farmacologici
La terapia farmacologica non è specifica per la dipendenza da lavoro, ma può essere indicata per trattare condizioni concomitanti:
- Antidepressivi per sintomi depressivi associati
- Ansiolitici (con cautela e per brevi periodi) per manifestazioni ansiose acute
- Stabilizzatori del sonno per disturbi del ritmo circadiano
È doveroso notare che molti workaholic considerano l’assunzione di farmaci come una “perdita di tempo” e chiedono versioni in compresse effervescenti da sciogliere nel caffè mentre continuano a lavorare.
Interventi occupazionali e organizzativi
Le aziende possono implementare strategie preventive:
- Politiche di disconnessione: diritto a non essere reperibili oltre l’orario lavorativo. Alcune aziende illuminate hanno implementato sistemi che bloccano l’invio di email fuori orario, provocando attacchi di panico in alcuni manager.
- Formazione sulla gestione dello stress: workshop su equilibrio vita-lavoro e tecniche di recupero. L’ironia è che questi corsi vengono spesso programmati durante le pause pranzo.
- Modelli di leadership sani: dirigenti che modellano comportamenti equilibrati. Il capo che va a casa all’orario previsto manda un messaggio più potente di qualsiasi policy aziendale.
- Revisione dei sistemi di valutazione: focus su produttività ed efficienza piuttosto che sulle ore lavorate. Alcune organizzazioni innovative premiano chi riesce a completare il proprio lavoro in meno tempo, anziché chi rimane alla scrivania fino a notte fonda.
Strategie di self-help
Tecniche che il workaholic può implementare autonomamente:
- Monitoraggio del comportamento lavorativo: tenere un diario delle ore lavorate e delle sensazioni associate. La semplice consapevolezza dei propri pattern può essere illuminante.
- Fissazione di confini: stabilire orari definiti di inizio e fine lavoro, con rituali di transizione. Alcuni ex-workaholic raccontano di aver letteralmente sepolto il proprio laptop in giardino durante le vacanze (per poi dissotterrarlo di nascosto la notte).
- Sviluppo di interessi extra-lavorativi: coltivare hobby e relazioni che offrano gratificazione alternativa. La scoperta che esistono attività piacevoli non misurabili in KPI rappresenta una rivelazione per molti.
- Tecniche di gestione dello stress: meditazione, esercizio fisico, respirazione profonda. Il workaholic in recupero spesso trasforma queste attività in nuove forme di competizione, cronometrando i propri progressi nella meditazione.
- Digital detox programmati: periodi senza dispositivi elettronici lavorativi. L’astinenza tecnologica inizia con tremori e sudorazione fredda, ma dopo 48 ore alcuni pazienti riportano di aver riscoperto l’esistenza del cielo, degli alberi e di quelle persone chiamate “familiari”.
Caso clinico: anatomia di una dipendenza
Presentazione del caso
Mario, 42 anni, dirigente di una multinazionale tecnologica, si rivolge a un terapeuta su insistenza della moglie, che minaccia di lasciarlo. Descrive una routine quotidiana che inizia alle 5:30 con il controllo delle email e termina raramente prima di mezzanotte. Lavora sistematicamente nei weekend e non prende ferie da tre anni. Quando ha provato a staccare per un giorno, ha sviluppato sintomi ansiosi tali da rendere necessario il ritorno immediato al lavoro.
Valutazione e diagnosi
L’assessment psicologico evidenzia:
- Punteggi elevati nelle scale di dipendenza da lavoro
- Perfezionismo patologico
- Bassa autostima mascherata da apparente sicurezza professionale
- Ansia generalizzata
- Insonnia cronica
- Problemi gastrointestinali
- Totale identificazione con il ruolo lavorativo
Mario afferma: “Non sono workaholic, sono semplicemente una persona che prende sul serio i propri impegni”, mentre controlla compulsivamente il telefono ogni 90 secondi durante il colloquio clinico.
Piano di trattamento
Il terapeuta imposta un intervento multimodale:
- CBT focalizzata sulle convinzioni disfunzionali relative al lavoro
- Esposizione graduale al “non fare” (iniziando con periodi di 15 minuti senza lavoro)
- Mindfulness per la gestione dell’ansia da disconnessione
- Coinvolgimento della famiglia nel processo terapeutico
- Collaborazione con l’azienda per modificare aspettative e carichi di lavoro
La prima sessione di mindfulness si conclude con Mario che contratta col terapeuta: “Posso meditare mentre rispondo alle email?”.
Decorso e follow-up
Dopo sei mesi di terapia, Mario mostra progressi significativi:
- Riduzione dell’orario lavorativo a livelli ragionevoli
- Capacità di trascorrere un weekend intero senza controllare email
- Riscoperta di interessi abbandonati (suonare la chitarra, leggere romanzi)
- Miglioramento della relazione coniugale
- Paradossalmente, aumento dell’efficienza lavorativa reale
Mario riferisce: “Ho scoperto che il mondo non crolla se non sono costantemente connesso, e che esistono altre fonti di identità oltre al mio ruolo professionale. In più, lavorando meno ore ma con maggiore presenza mentale, i miei risultati sono addirittura migliorati”.
Prevenzione: contrastare la cultura dell’iperlavoro
Prevenzione individuale
Strategie personali preventive:
- Consapevolezza dei propri limiti: riconoscere segnali di affaticamento e stress.
- Sviluppo di un’identità multidimensionale: coltivare diversi ruoli e fonti di significato.
- Competenze di gestione del tempo: capacità di priorizzare e delegare.
- Educazione all’ozio costruttivo: riscoperta del valore del riposo e della noia creativa.
- Audit regolari dell’equilibrio vita-lavoro: verifica periodica della distribuzione del proprio tempo ed energie.
Prevenzione familiare
Interventi a livello familiare:
- Educazione al valore della persona oltre i risultati: apprezzamento incondizionato.
- Modellamento di un sano rapporto col lavoro: genitori che mostrano equilibrio.
- Valorizzazione del tempo libero: cultura familiare che celebra il gioco e il riposo.
- Comunicazione aperta: capacità di esprimere bisogni e limiti.
- Rituali familiari protetti: momenti dedicati all’interazione non interrompibili dal lavoro.
Prevenzione organizzativa
Misure aziendali preventive:
- Culture organizzative sane: valorizzazione esplicita dell’equilibrio vita-lavoro.
- Politiche di ferie obbligatorie: alcune aziende impongono periodi di disconnessione.
- Formazione manageriale: sensibilizzazione dei dirigenti ai rischi del workaholism.
- Monitoraggio dei carichi di lavoro: sistemi di allerta per sovraccarichi prolungati.
- Spazi di decompressione: ambienti aziendali che facilitano il distacco mentale.
Prevenzione sociale
Interventi a livello di società:
- Educazione nelle scuole: programmi che insegnano l’importanza dell’equilibrio.
- Campagne di sensibilizzazione: informazione pubblica sui rischi dell’iperlavoro.
- Politiche pubbliche: legislazione che protegge il diritto alla disconnessione.
- Ripensamento dei modelli di successo: celebrazione mediatica di stili di vita equilibrati.
- Valorizzazione del “tempo ben speso”: superamento dell’equazione tempo=produttività.
Conclusioni: verso un nuovo paradigma lavorativo
Sintesi delle evidenze
La dipendenza da lavoro rappresenta un fenomeno complesso, determinato dall’interazione di fattori individuali, familiari, organizzativi e socioculturali. Le conseguenze si estendono ben oltre la sfera professionale, compromettendo la salute fisica e mentale, le relazioni interpersonali e, paradossalmente, anche l’efficacia lavorativa stessa.
Prospettive future
La crescente digitalizzazione e la diffusione dello smart working hanno ulteriormente sfumato i confini tra vita personale e professionale, rendendo ancora più necessario sviluppare strategie preventive e terapeutiche efficaci. La pandemia di COVID-19, in particolare, ha rappresentato un esperimento sociale su larga scala che ha evidenziato sia i rischi della connessione permanente sia le possibilità di riorganizzazione del lavoro in modalità più sostenibili.
Un invito alla riflessione
In ultima analisi, la dipendenza da lavoro ci interroga sui valori fondamentali della nostra società e sulle basi della nostra identità personale. In un sistema che tende a misurare il valore umano in termini di produttività e successo professionale, scegliere consapevolmente l’equilibrio rappresenta un atto tanto terapeutico quanto rivoluzionario.
Come ha brillantemente osservato Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932): “Il saggio uso del tempo libero è un prodotto della civiltà e dell’educazione”. Forse, a quasi un secolo di distanza, è giunto il momento di riscoprire questa saggezza e riconoscere che la vera produttività umana non si misura in ore lavorate, email inviate o progetti completati, ma nella capacità di vivere una vita piena, equilibrata e significativa.
E se state leggendo queste righe dopo la mezzanotte, mentre controllate le email di lavoro, forse è il momento di chiedervi se questa guida non stia parlando proprio di voi.
Proposte alternative per guide tematiche correlate
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Bibliografia
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